
Sembra quasi che la Corte di Palermo voglia dire al presidente della Repubblica: "Non ci crediamo se non ce lo dici di persona", e non pare bello. Come al solito però la faccenda è più complicata. Ci sono comunque alcuni punti fermi. Intanto Giorgio Napolitano con la "trattativa", ammesso e non concesso ci sia stata, non c’entra nulla.
Ce lo ha infilato con le sue telefonate Nicola Mancino. In quelle telefonate non c’era nulla che potesse interessare il processo. Lo hanno detto gli stessi pubblici ministeri. La distruzione dei file è avvenuta per decisione della Corte costituzionale che nella sentenza definisce in modo più ampio i confini della riservatezza dei colloqui del presidente. La Corte ora vuole sentire Napolitano a proposito di un passaggio di una lettera che il consigliere Loris D’Ambrosio gli scrisse e il presidente rese pubblica. Dal Quirinale ha già risposto ai giudici che D’Ambrosio non gli disse altro e dunque ha fatto presente che il suo interrogatorio sarebbe inutile.
La corte ieri ha risposto in sostanza che non è un testimone a decidere dell’utilità del suo interrogatorio. L’argomento ha un suo peso e al Quirinale non potevano non prevederlo. E infatti il presidente ha detto subito di essere disponibile. E siccome pare sicuro dei suoi argomenti la mancanza di pubblicità, prevista dal codice, della sua deposizione rischia paradossalmente di danneggiarlo.
© 2014 Il Foglio. Tutti i diritti riservati