
Il primo a porre il problema fu, negli anni Ottanta, il magistrato genovese Adriano Sansa quando rilasciò una intervista in cui affermava che non avrebbe più richiesto condanne che prevedessero la detenzione, visto lo stato delle nostre carceri. Pannella, che già si batteva sulla questione, racconta un suo incontro con l’allora ministro della Giustizia Rognoni quando il democristiano lombardo, che pure non era un conservatore, gli sbandierò davanti il giornale con l’intervista dicendogli, visibilmente alterato: "Ma non lo vedi dove siamo arrivati? Siamo al punto che ci sono magistrati che rifiutano di fare il loro dovere!". Pannella, come è noto, dopo trent’anni non ha cambiato idea, e neanche Sansa che scrive oggi grosso modo le stesse cose su Famiglia Cristiana. La novità, come scriveva ieri Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, è che ora il problema è sollevato di fronte alla Corte costituzionale da un atto giudiziario, un’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Padova a proposito di un ricorso di un detenuto che chiede la sospensione della detenzione sulla base di condizioni carcerarie "inumane e degradanti", come sono definite in alcune sentenze del tribunale europeo che condannano lo stato italiano. Il nostro codice, questo in sintesi il ragionamento dell’ordinanza, non consente la sospensione della pena se non per grave malattia ma infliggere un trattamento inumano configura un reato che sarebbe commesso paradossalmente da un collegio giudicante. E’ esattamente quello che Pannella chiama "flagranza criminale del nostro stato". Se la veda ora la Consulta, visto che il Parlamento e i ministri succeduti a Rognoni non sono riusciti a nulla.
© 2013 Il Foglio. Tutti i diritti riservati