
20/04/10
Il Riformista
E ora, le truppe. Basta diplomazie. Oggi Gianfranco Fini proverà a risuscitare An. O meglio, una nuova An, senza i vecchi colonnelli. Con l’obiettivo di archiviare la monarchia berlusconiana alla direzione del Pdl di giovedì, allargata ai gruppi parlamentari. Obiettivo: o svolta o rottura; o l’istituzionalizzazione di una corrente nel Pdl, o via libera alla creazione di gruppi autonomi alla Camera e al Senato.
Nei giorni scorsi il presidente della Camera ha chiamato - personalmente - uno ad uno tutti gli eletti in
quota An. E oggi - appuntamento a mezzogiorno nella sala Tatarella, alla Camera a chi ci sarà il presidente spiegherà il senso della posta in gioco. Ovvero un «chiarimento» per verificare se le sue posizioni - sulla Lega, su Tremonti, sulla democrazia di partito - hanno cittadinanza nel Pdl. Per dire che se però da Berlusconi non arrivano segnali di «discontinuità», così non si può andare avanti.
È il primo strappo. Perché la presenza alla riunione di oggi - per dirla coi fedelissimi - «significa comunque stare con Fini». Sarà pure vergato un ordine del giorno per dire che le sue posizioni - su Lega, Tremonti e democrazia di partito, appunto - sono «condivise» e che è necessario discuterle democraticamente alla direzione di giovedì. Questo il ragionamento: «Per ricomporre il quadro il premier deve riconoscere dignità alle proposte di Fini, non può continuare a ignorarle come ha fatto finora». Dalla monarchia alla diarchia. Il che significa riconoscimento del correntone finiano. Tanto che - come ai tempi di An ieri è andata in scena la rivolta dei vecchi colonnelli. Come Ignazio La Russa, ad esempio. Il ministro ha convocato una ventina di parlamentari del nord, che hanno sottoscritto un documento per ribadire che «qualunque cosa accada il Pdl rappresenta una scelta giusta e irreversibile», da rafforzare «restando all’interno del partito».
Non è il solo ad aver messo in atto la strategia di contenimento. Maurizio Gasparri ha avvertito: «In caso di scissione si torna alle urne». E pure Altero Matteoli ha dichiarato: «Non andrò alla riunione. Ogni strappo sarebbe assurdo». Solo Alemanno, il meno falco, ha invocato un congresso e una maggiore discussione. Ma i suoi, oggi, non guarderanno in faccia l’ex leader.
Ed è proprio sui numeri della pattuglia del presidente della Camera che la guerra col premier è feroce. Innanzitutto, sulla consistenza: per i finiani «50 deputati e 18 senatori», perla cerchia ristretta del premier «non superano i venti». Ma la disinformazia è, anch’essa, il termometro della tensione. Del resto i canali di comunicazione tra Fini e Berlusconi sono interrotti. Pure Letta ha dismesso i panni della colomba: «Se legittimi Fini come minoranza - ha detto al premier - di minoranze a quel punto ne possono nascere una al giorno e il partito diventa ingovernabile». Di qui il Cavaliere ha dato ordine ai suoi di contattare i finiani dubbiosi. Questo il senso del messaggio: «Pensateci bene perché c’è in ballo la ricandidatura. Chi fa un gruppo è fuori dal partito». Sia chiaro: non tutti di quelli che saranno presenti oggi alla riunione con Fini la pensano allo stesso modo. L’ala dura - Bocchino, Briguglio, Periva, Granata - ha messo in conto la scissione. Il gruppone del Senato legato ad Andrea Augello e Mario Baldassarri
pensa che sia possibile la nascita di un correntone finiano in grado di cambiare la dialettica interna al Pdl. I più filoberlusconiani come Amedeo Laboccetta tagliano corto: «Lasciare il Pdl sarebbe miopia politica».
Sia come sia tra i duellanti gli spazi di mediazione si sono ristretti. Basta osservare i messaggi più o meno cifrati che si sono inviati nelle ultime ore. Fini ha passato la giornata in silenzio, «come alla vigilia di ogni sua svolta», dice chi lo conosce bene: poche telefonate, neanche con gli amici di una vita, nessun appuntamento pubblico. Anzi, ha pure annullato il convegno - previsto per ieri - copromosso con Tremonti sulla cittadinanza. Domani però interverrà alla presentazione del libro di Granata, sullo stesso tema, con Veltroni e Pisanu. Segnali, forse di rottura. Come quelli inviati nel corso di Porta a Porta da Berlusconi. Che non ha alcuna intenzione di cambiare registro. Sul partito: «Spero si trovi una quadra con Fini ma non dipende da me». O sul Carroccio: «Bossi è l’unico alleato che abbiamo. Ha sempre dimostrato saggezza, acutezza politica e assoluta. Che Dio che lo conservi». Per non parlare delle correnti interne al Pdl: «Ritorni al passato, a formule politiche come quella di qualcuno dei nostri componenti che non prevedevano democrazia, in cui c’era un leader che decideva tutto, non sono possibili». Tradotto: pure An era una monarchia, quindi non accetto lezioni.
Per il premier non c’è molto da aggiungere. Per Fini il confronto è appena iniziato. Tuttavia ha detto ai suoi di tenere i toni bassi. Le conclusioni le tirerà lui giovedì, in base a quello che dirà Berlusconi. E a giudicare dalla battuta amara che circolava tra i finiani («Per la prima volta nel Pdl si discuterà, peccato che potrebbe essere l’ultima») l’umore del presidente della Camera tende al pessimismo. La scaletta che sottoporrà al premier è già pronta: il cedimento del Pdl alla Lega, evidenziato dal dato elettorale, la sua subalternità politica, esorterà il partito a guidare il paese, a osare su welfare e diritti. Dirà che per farlo serve un grande partito e un grande partito è un partito democratico. Dirà insomma quale è il suo Pdl. Dove realizzarlo, se dentro o fuori, dipende dalle risposte del Cavaliere.
Nei giorni scorsi il presidente della Camera ha chiamato - personalmente - uno ad uno tutti gli eletti in
quota An. E oggi - appuntamento a mezzogiorno nella sala Tatarella, alla Camera a chi ci sarà il presidente spiegherà il senso della posta in gioco. Ovvero un «chiarimento» per verificare se le sue posizioni - sulla Lega, su Tremonti, sulla democrazia di partito - hanno cittadinanza nel Pdl. Per dire che se però da Berlusconi non arrivano segnali di «discontinuità», così non si può andare avanti.
È il primo strappo. Perché la presenza alla riunione di oggi - per dirla coi fedelissimi - «significa comunque stare con Fini». Sarà pure vergato un ordine del giorno per dire che le sue posizioni - su Lega, Tremonti e democrazia di partito, appunto - sono «condivise» e che è necessario discuterle democraticamente alla direzione di giovedì. Questo il ragionamento: «Per ricomporre il quadro il premier deve riconoscere dignità alle proposte di Fini, non può continuare a ignorarle come ha fatto finora». Dalla monarchia alla diarchia. Il che significa riconoscimento del correntone finiano. Tanto che - come ai tempi di An ieri è andata in scena la rivolta dei vecchi colonnelli. Come Ignazio La Russa, ad esempio. Il ministro ha convocato una ventina di parlamentari del nord, che hanno sottoscritto un documento per ribadire che «qualunque cosa accada il Pdl rappresenta una scelta giusta e irreversibile», da rafforzare «restando all’interno del partito».
Non è il solo ad aver messo in atto la strategia di contenimento. Maurizio Gasparri ha avvertito: «In caso di scissione si torna alle urne». E pure Altero Matteoli ha dichiarato: «Non andrò alla riunione. Ogni strappo sarebbe assurdo». Solo Alemanno, il meno falco, ha invocato un congresso e una maggiore discussione. Ma i suoi, oggi, non guarderanno in faccia l’ex leader.
Ed è proprio sui numeri della pattuglia del presidente della Camera che la guerra col premier è feroce. Innanzitutto, sulla consistenza: per i finiani «50 deputati e 18 senatori», perla cerchia ristretta del premier «non superano i venti». Ma la disinformazia è, anch’essa, il termometro della tensione. Del resto i canali di comunicazione tra Fini e Berlusconi sono interrotti. Pure Letta ha dismesso i panni della colomba: «Se legittimi Fini come minoranza - ha detto al premier - di minoranze a quel punto ne possono nascere una al giorno e il partito diventa ingovernabile». Di qui il Cavaliere ha dato ordine ai suoi di contattare i finiani dubbiosi. Questo il senso del messaggio: «Pensateci bene perché c’è in ballo la ricandidatura. Chi fa un gruppo è fuori dal partito». Sia chiaro: non tutti di quelli che saranno presenti oggi alla riunione con Fini la pensano allo stesso modo. L’ala dura - Bocchino, Briguglio, Periva, Granata - ha messo in conto la scissione. Il gruppone del Senato legato ad Andrea Augello e Mario Baldassarri
pensa che sia possibile la nascita di un correntone finiano in grado di cambiare la dialettica interna al Pdl. I più filoberlusconiani come Amedeo Laboccetta tagliano corto: «Lasciare il Pdl sarebbe miopia politica».
Sia come sia tra i duellanti gli spazi di mediazione si sono ristretti. Basta osservare i messaggi più o meno cifrati che si sono inviati nelle ultime ore. Fini ha passato la giornata in silenzio, «come alla vigilia di ogni sua svolta», dice chi lo conosce bene: poche telefonate, neanche con gli amici di una vita, nessun appuntamento pubblico. Anzi, ha pure annullato il convegno - previsto per ieri - copromosso con Tremonti sulla cittadinanza. Domani però interverrà alla presentazione del libro di Granata, sullo stesso tema, con Veltroni e Pisanu. Segnali, forse di rottura. Come quelli inviati nel corso di Porta a Porta da Berlusconi. Che non ha alcuna intenzione di cambiare registro. Sul partito: «Spero si trovi una quadra con Fini ma non dipende da me». O sul Carroccio: «Bossi è l’unico alleato che abbiamo. Ha sempre dimostrato saggezza, acutezza politica e assoluta. Che Dio che lo conservi». Per non parlare delle correnti interne al Pdl: «Ritorni al passato, a formule politiche come quella di qualcuno dei nostri componenti che non prevedevano democrazia, in cui c’era un leader che decideva tutto, non sono possibili». Tradotto: pure An era una monarchia, quindi non accetto lezioni.
Per il premier non c’è molto da aggiungere. Per Fini il confronto è appena iniziato. Tuttavia ha detto ai suoi di tenere i toni bassi. Le conclusioni le tirerà lui giovedì, in base a quello che dirà Berlusconi. E a giudicare dalla battuta amara che circolava tra i finiani («Per la prima volta nel Pdl si discuterà, peccato che potrebbe essere l’ultima») l’umore del presidente della Camera tende al pessimismo. La scaletta che sottoporrà al premier è già pronta: il cedimento del Pdl alla Lega, evidenziato dal dato elettorale, la sua subalternità politica, esorterà il partito a guidare il paese, a osare su welfare e diritti. Dirà che per farlo serve un grande partito e un grande partito è un partito democratico. Dirà insomma quale è il suo Pdl. Dove realizzarlo, se dentro o fuori, dipende dalle risposte del Cavaliere.
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