
20/01/11
Secolo d'Italia
Marco Pannella non molla. In occasione del nuovo interrogatorio di Tony Blair da parte della commissione Chilcot, che si svolgerà domani, una delegazione manifesterà a Londra per chiedere, ancora una volta, che si faccia piena luce sulle responsabilità dell’ex primo ministro britannico e di Bush sulla guerra in Iraq. Ellen Tauscher, sottosegretaria americana alla Giustizia, il 22 settembre 2009, nel corso di una serie d’incontri avvenuti a Londra con importanti funzionari governativi britannici in occasione della conferenza P5, ha affermato di avere ricevuto rassicurazioni da John Day, direttore generale del ministero della Difesa britannico, che la Gran Bretagna proteggeva gli interessi statunitensi, nell’inchiesta sulle cause della guerra. Finora a molti è parso che la commissione d’indagine Chilcot voglia rispettare il tabù sui motivi per i quali Bush e Blair decisero di muovere guerra all’Iraq nonostante Hans Blix, capo degli ispettori dell’Onu, avesse segnalato la piena collaborazione da parte irachena a cercare l’effettiva presenza nel territorio di armi di distruzione di massa. Nel precedente interrogatorio Blair aveva affermato di non provare alcun rammarico per le proprie responsabilità e aveva concluso la sua rievocazione dei fatti con un "Sinceramente, lo rifarei”. L’ex premier laburista aveva trovato, come scusante, il principio del "calcolo del rischio". È vero, cioè, che Saddam non avrebbe mai mandato terroristi in Occidente ma, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, il "calcolo del rischio" era cambiato. Se, infatti, Saddam si fosse alleato con Osama Bin Laden, se avesse "continuato a produrre" armi di distruzione di massa, se i terroristi avessero avuto quelle armi, il rischio per l’Occidente e per la Gran Bretagna sarebbe stato altissimo. Se, se, se. In altri termini, la Gran Bretagna sostenne Gorge W. Bush sulla base di mere congetture. Marco Pannella da otto anni non intende demordere un solo istante dall’accusa a Bush e Blair di non avere mosso un dito per rendere possibile la sua proposta, giudicata a livello internazionale realizzabile, di mandare in esilio Saddam Hussein e assicurare in Iraq una svolta democratica senza spargimento di sangue. Chiunque può visitare in internet il sito, dal nome tanto lungo da sembrare il titolo di un film di Lina Wertmuller, bushblaircontrosicurapacefeceroguerrairakimpedendoesilioasaddam.it, per rendersi conto di quanto la prospettiva, tutt’altro che peregrina, sia stata impedita dal deliberato proposito d’intervento militare di Bush e Blair.
Dal memorandum di David Manning, consigliere di Blair, emerge che il 23 luglio 2002 George W. Bush cominciò a pianificare la guerra usando come giustificazione il legame tra terrorismo e armi di distruzione di massa. In quello stesso anno Pannella lanciò la campagna "Iraq libero, unica alternativa alla guerra": l’esilio del dittatore Saddam Hussein da un lato avrebbe scongiurato la guerra, dall’altro avrebbe costituito il punto di partenza per una soluzione politica della questione irachena. Il ministro Franco Frattini, da parte sua, non solo non diede seguito alla mozione, suggerita dai radicali e approvata il 19 febbraio 2003 dalla Camera dei deputati del Parlamento italiano (345 si, 38 no, 52 astenuti), che impegnava il governo italiano "a sostenere presso tutti gli organismi internazionali e principalmente presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l’ipotesi di un esilio del dittatore iracheno", ma non esitò a mostrare la propria contrarietà.
«Abbiamo provato a spingere Saddam in esilio - fece mettere a verbale il ministro degli Esteri- ma abbiamo ricevuto una risposta inequivocabilmente negativa. Chiedo che la mozione venga ritirata».
La Libia, che dapprima (19 gennaio 2003) si era pronunciata favorevolmente ad ospitare il dittatore, mandò a monte (primo marzo 2003) il summit arabo nel corso del quale gli Emirati Arabi avrebbero presentato un piano per l’esilio, accettato dallo stesso Saddam.
Pannella, attivissimo a livello internazionale, aveva subito lanciato un monito: "Attenti a non illudersi a creare la pace attraverso Gheddafhi". Bush, intanto incontrava nel suo ranch di Crawford in Texas., con Blair e berlusconi in collegamento telefonico, l’allora premier spagnolo Josè Maria Aznar informandolo che era giunto il momento di attaccare l’Iraq e d sbarazzarsi di Saddam. Nel 2007 Zapatero rese pubblici gli appunti dell’ambasciatore spagnolo negli Usa in quel periodo. Sia il Pais che il New York Times ne diedero rilevanza.
Dal rapporto dell’Institute for War and Peace Reporting sulle attività degli esuli dell’Iraqi Group emerge, inoltre, che un gruppo di esiliati non schierati politicamente aveva lanciato l’appelloa Saddam Hussein perché abbandonasse volontariamente il potere per salvare l’Iraq dalla guerra e dai suoi disastrosi sviluppi. Sottoscritto da trentasette nomi illustri in esilio, compresi cinque ex ministri, tra cui Adnan Pachachi, l’appello aveva ricevuto l’appoggio anche di Zayed ibn Sultan an Nahayan, presidente degli Emirati Arabi. Il 19 marzo 2003 l’agenzia di stampa ufficiale del Bahrein annunciò che il re Hamad bin Isa Al Khalifa annunciava la propria disponibilità ad ospitare, in caso di esilio Saddam Hussein. Lo stesso giorno l’Ansa diffuse un’intervista ad Alexander Adler, ex direttore di Courier International, nella quale si affermava che "le monarchie moderate del Golfo - Arabia Saudita, Qatar e Bahrain - vogliono che Saddam se ne vada". Niente da fare. Il 20 marzo iniziarono i bombardamenti a Baghdad. Negli stessi momenti Marco Pannella tuonò al Parlamento europeo: "Europa vile! Europa di Vichy!". Oggi, come ieri, continua a chiedere "verità" su quella guerra, "Noi -insiste- abbiamo gli elementi fattuali che fu evitabile. C’è la volontà dì non farli emergere, ma credo che questa verità sarà liberatoria e rivoluzionaria".
P.S. Non ci risulta che nessuno dei buropacifìsti nostrani, dei forzati delle marce sventolanti bandiere rosse e iridate, dei promotori della Tavola della pace o di analoghi organismi abbia mai, neanche lentamente sposato la proposta pannelliana o ritenuto che potesse costituire davvero una via d’uscita dall’ecatombe. Questo la dice lunga sulla differenza radicale tra il laico pacifismo e la nonviolenza.
© 2011 Secolo d'Italia. Tutti i diritti riservati