
E così, nonostante l’astensione che avrebbe dovuto penalizzarlo, le inchieste che lo riguardano, l’esclusione della sua lista nella provincia di Roma ed una certa stanchezza nell’azione del governo, Silvio Berlusconi - un po’ a sorpresa rispetto alle ultimissime previsioni - ha largamente vinto anche questa tornata elettorale. Governava in due sole Regioni (rispetto alle 11 del centrosinistra) e da oggi ne amministra sei.
Conferma, come da pronostico, Lombardia e Veneto; guadagna, come scontato da settimane, Campania e Calabria; ma soprattutto conquista il Lazio - nonostante l’assenza di liste Pdl nella capitale - ed espugna il Piemonte, che da oggi diventa una Regione a trazione leghista.
Il Pd perde ma non frana, confermandosi partito-guida in sette Regioni. All’opposto, il Pdl mette nel carniere quattro nuovi governi regionali, ma ottiene un deludente risultato come partito, arretrando non solo rispetto alle europee di un anno fa ma anche alle elezioni regionali del 2005. E se i risultati dei due maggiori partiti in campo sono in qualche modo in chiaroscuro - e si prestano a esser dunque letti in maniera diversa (in ossequio alla nota filosofia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto) - su un dato non sono possibili divagazioni: e il dato è l’avanzata - l’ennesima - della Lega di Umberto Bossi.
Il fatto che il «partito padano» non abbia sorpassato in queste elezioni il Popolo della libertà, è circostanza francamente marginale. Quel che infatti conta sul serio sono le percentuali bulgare raggiunte in Veneto, l’ulteriore crescita in Lombardia, l’insediamento con consenso crescente in Emilia (il Carroccio è il primo partito perfino nel Comune natale di Bersani...) e soprattutto il fatto che, con un proprio candidato, abbia portato il centrodestra alla conquista del Piemonte. Il partito di Bossi governa ora due tra le più importanti e popolose Regioni del Nord, è già ben insediato alla guida di centinaia di amministrazioni e ora si accinge a chiedere il governo di Milano, e forse non solo di Milano. La lunga marcia dei lumbard dunque prosegue: e in assenza di risposte chiare e forti da parte della politica «romana», non si vede cosa possa fermarla.
E non è solo il radicalismo leghista a uscir premiato dalle urne. Se si guarda infatti a quel che accade nell’altra metà del campo, è possibile osservare un fenomeno analogo. Il «partito giustizialista» di Antonio Di Pietro, infatti, non esce ridimensionato dal voto e, anzi, importa a livello regionale le alte percentuali raggiunte un anno fa alle elezioni europee; le liste «fai da te» messe in campo da Beppe Grillo vanno quasi ovunque oltre il 3%, con punte di oltre il 6% in Emilia; e non può esser senza significato il risultato importante (e senz’altro inatteso) ottenuto da un candidato «radicale» come Nichi Vendola in Puglia e il successo sfiorato da Emma Bonino nel Lazio. Del resto, non si capisce come possa destare sorpresa il fatto che, dopo un anno di pesante crisi economica e con i partiti tradizionali impegnati in furibonde risse su tutt’altro (dalle escort ai processi brevi e alle intercettazioni), oltre la metà degli italiani abbia deciso di non votare odi sostenere forze estreme o radicali.
E al di là di chi ha vinto di più odi chi ha perso di meno, è questa la scoraggiante fotografia che il voto di ieri consegna alle classi dirigenti del Paese: il livello di sopportazione, il livello di guardia, non è lontano. E se l’altissima percentuale di astensioni ne è una spia, sarebbe errato non considerarne un effetto anche quel 20% di consensi distribuiti tra partiti estremi (come la Lega) e movimenti radicali quasi personali (Di Pietro e Grillo). Chi ha memoria, infatti, non può non ricordare come la Prima Repubblica - al di là delle successive inchieste giudiziarie - cominciò a scricchiolare proprio sotto l’incalzare del fenomeno leghista...
E’ giusto, dunque, interrogarsi sul tipo di risposta che sapranno dare a questo evidente disagio i due partiti maggiori, e le dinamiche che il risultato elettorale potrebbe avviare tanto nella coalizione di governo quanto nel fronte dell’opposizione. Ipotizzare una crescita dell’ipoteca leghista sull’esecutivo è fin troppo ovvio: ciò che è ancora difficile da immaginare, invece, è il tipo di risposta che arriverà da Silvio Berlusconi. Così come nient’affatto scontate sono le mosse che deciderà di compiere Gianfranco Fini, sempre più insofferente verso l’ «egemonia» leghista sul governo e segnalato - un giorno sì e l’altro pure - come ormai in uscita dal PdL Dopo questo voto, insomma, molto potrebbe cambiare: e onestamente, alla luce di quanto visto negli ultimi mesi, sarebbe davvero opportuno che molto cambiasse...
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