
Il momento fondamentale nelle ultime due udienze del processo di Palermo sulla presunta trattativa Stato-mafia è stato un passaggio della testimonianza di Giuseppe Gargani, che nel 1992 era parlamentare e responsabile giustizia della Dc. Il pubblico ministero gli ha chiesto perché Vincenzo Scotti venne tolto dal ministero dell’Interno. Gargani ha risposto che Antonio Gava voleva che il Viminale andasse ai dorotei ed era pronto a tornarci lui in persona. La corrente di Ciriaco De Mita era contraria e schierò Nicola Mancino, sostenuto anche da Oscar Luigi Scalfaro. Tutto si aggiustò quando Gava fu votato come capogruppo al Senato. A quel punto il pm è esploso: «Ma come! Voi, poche settimane dopo la strage di Capaci, pensavate a sistemare Gava?». E Gargani, per nulla turbato: «Sì, certo».
È un passaggio chiave perché mostra due incomunicabili modi di ragionare. È qui che sta il problema di questo processo. Il problema non è chi ragiona meglio, perché non è cosa che possa essere decisa in un tribunale. L’accusa sembra voler processare procedure che le appaiono, non sempre a torto, incomprensibili e inappropriate, ma caratterizzano la politica. L’avvicendamento al ministero dell’Interno nel 1992, un tema al quale sono state dedicate già tre udienze piene, può essere spiegato più facilmente con le dinamiche dei complicati equilibri fra le correnti Dc che con una congiura volta a trattare con Totò Riina e Bernardo Provenzano.
In fondo i pm sopravvalutano il ceto politico estenuato della fine della Prima Repubblica. Lo pretendono capace di trame complesse mentre era rintanato nel Palazzo cercando di evitare la realtà. Quanto al pentito catanese sentito nell’udienza successiva, Filippo Malvagna, nipote di Giuseppe Pulvirenti, la sua deposizione non ha aggiunto nulla a quanto si è già sentito.
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