
23/02/11
Giorno/Resto/Nazione
Berlusconi amico dei dittatori? La retorica della sinistra italiana ed europea lascia sgomento Lamberto Dini. Il quale, forte dell'esperienza maturata come ministro degli Esteri del primo governo Prodi e presidente della commissione Esteri del Senato del secondo, la mette così: «L'Italia non ha nulla di cui vergognarsi: curiamo i nostri interessi come qualsiasi altro paese europeo e il governo Berlusconi non fa niente di diverso da quel che fecero i governi Prodi, che sempre ebbero rapporti amichevoli con i paesi della sponda sud del Mediterraneo a partire dalla Libia. Per non dire della Cina».
Già, la Cina. Non esattamente una democrazia. Eppure a Pechino Prodi è di casa tanto quanto lo era Berlusconi a Tripoli. Amicizia? Consonanza ideale? Macché, affari. Da presidente della commissione europea, favori l'ingresso della Cina e delle sue merci nel Wto, da premier intensificò il rapporto fino a divenire, come sussurra un prodiano, «forse il principale lobbista europeo con Pechino». Prodi insegna nelle università cinesi, commenta la politica internazionale per la tv di Stato, vanta eccellenti rapporti personali col premier Wen Jiabao. Se, nella retorica odierna, la sollevazione libica viene paragonata a quella cinese dell'89, giova ricordare che Prodi si dichiarò favorevole alla sospensione all'embargo europeo sulla vendita di armi alla Cina introdotto dopo la repressione dei manifestanti di piazza Tienanmen. Fu quando, nel 2006, da premier scortò un migliaio di uomini d'affari italiani a Pechino. Le organizzazioni cattoliche gli chiesero di sollecitare la liberazione dei vescovi imprigionati per motivi religiosi, i radicali gli chiesero di adoperarsi a favore dell'autodeterminazione del Tibet, le associazioni umanitarie di battersi per il rispetto dei diritti umani. Nulla di tutto ciò. Oltre a caldeggiare gli interessi dell'industria bellica, Prodi trovò solo il tempo di sostenere l'integrità territoriale cinese. Con buona pace di Taiwan. Quanto al Dalai Lama, quando venne a Roma si guardò bene dal riceverlo. È evidentemente difficile, in un'epoca di conformismo politicamente corretto, accettare il principio della ragion di Stato. Ma la verità è che, come lamentava ancora ieri Marco Pannella da Radio Radicale, i governi italiani, di destra o di sinistra, hanno sempre considerato Gheddafi un «alleato strategico». Da Moro, Andreotti e Craxi, passando Berlusconi. Prodi e D'Alema, nulla è cambiato. Il primo capo di governo occidentale a precipitarsi in Libia dopo la fine dell'embargo fu Massimo D'Alema: «L'Italia si mette a disposizione», disse. Come ricorda infatti Dini «il tanto vituperato accordo italo-libico firmato da Berlusconi nel 2008 nacque dal comunicato congiunto che stilai nel '98 su incoraggiamento di Prodi». Dev'essere stato per questo motivo che, dieci anni dopo, Gheddafi definì Prodi e D'Alema «uomini audaci». Un idillio mai finito.
Domenica scorsa, ad esempio, sul Sole 24 Ore D'Alema si augurava «un'evoluzione positiva» della crisi libica, mica la cacciata del Rais. «Gheddafi ha ancora un rapporto solido con parte della società libica», assicurava. Discorsi simli a quelli fatti da Berlusconi (domanda a latere: ma i servizi segreti italiani non sapevano nulla?). E se ora l'irruzione della «democrazia» sulla scena libica rischia di lasciarci a secco di petrolio, forse è un bene che l'Italia abbia intrallazzato con l'autarca Putin per la realizzazione del gasdotto South Stream. La firma l'ha messa Silvio Berlusconi, il progetto fu avviato da Romano Prodi. Ma l'amico dei dittatori è uno solo. « Berlusconi - riflette Dini - paga il prezzo della trasparenza forse eccessiva su cui si fonda la sua diplomazia personale». La differenza tra lui e molti suoi detrattori, insomma, riguarda lo stile: l'esibizione della verità. Non è poco, non è tutto.
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