
In un'intervista da Aleppo trasmessa dalla Bbc Abdul Saleh, comandante degli insorti della Brigata Tawhid, avvisa i giornalisti di tenersi pronti in ogni momento a prendere la fuga. «In quale direzione?», chiede con comprensibile tensione l'inviato della Bcc. «Ma che volete, in una qualunque», risponde il comandante che scruta all'orizzonte le bocche da fuoco dei carri armati. Mentre le truppe di Bashar Assad assediano Aleppo, con 200mila persone in fuga, e i ribelli sono trincerati nei quartieri del maggiore centro economico e strategico del Paese, comincia a farsi strada anche un'altra domanda: in quale direzione sta andando la Siria?
Nessuno realmente lo sa, tranne forse le monarchie del Golfo che finanziano con criteri assai selettivi i ribelli siriani, secondo fonti del dipartimento del Tesoro americano citate dal "Wall Street Journal". Più un gruppo combattente dimostra di avere una solida fede da musulmano sunnita zelante e maggiori sono le sue speranze di vedere arrivare armi e soprattutto denaro. Avere inclinazioni verso l'Islam wahabita, la versione più pura e dura della dottrina coranica, o simpatizzare per quello salafita, legato all'interpretazione letterale del libro sacro, è certamente un titolo di merito per le petromonarchie del Golfo che ospitano in Arabia Saudita lo sceicco Adnan al-Arour, noto per aver incitato dagli schermi i sunniti siriani «a fare a pezzi e dare in pasto ai cani» i sostenitori del regime, tra cui i cristiani.
Improvvisamente anche media influenti come al-Jazeera - l'emittente del Qatar il cui inviato Omar Khachram è stato ferito ieri ad Aleppo - si sono accorti che in Siria sventola la bandiera nera di al-Qaida. «Alcuni gruppi sostengono di essere affiliati ad al-Qaida e dicono di avere campi di addestramento nel Paese», afferma l'emittente araba.
Tra gli americani si insinua qualche dubbio sul futuro di questo Paese nel cuore del Medio Oriente, intrattabile avversario di Israele che occupa dal '67 le alture del Golan, alleato dell'Iran degli ayatollah e principale fornitore di missili agli Hezbollah sciiti libanesi. Un "nemico perfetto" da abbattere, insieme al regime traballante di un giovane presidente che ha deluso tutte le speranze e continua ad appoggiarsi a Teheran e Mosca.
Ma al "nemico perfetto" bisogna trovare un sostituto adatto. Il "New York Times" scrive che «jihadisti musulmani locali, così come piccoli gruppi di combattenti di al-Qaida, stanno assumendo un ruolo più marcato e chiedono di poter dire la loro sulla gestione della resistenza».
Da Londra, dove ieri ha defezionato l'incaricato d'affari siriano Khaled al-Ayoubi, il ministro degli Esteri William Hague ha lanciato recentemente un allarme: «Abbiamo ragione di credere che gruppi terroristi affiliati ad al-Qaida abbiano perpetrato attacchi con l'obiettivo di incrementare la violenza in Siria, con serie implicazioni per la sicurezza internazionale». Lo scorso maggio il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon aveva accusato al-Qaida dell'attentato con 55 morti alla periferia di Damasco sulla strada per l'aereoporto. Eppure fino a qualche tempo fa la versione corrente era che gli attentati venissero orchestrati dal regime per terrorizzare la popolazione e al-Qaida era manipolata dagli onnipotenti servizi segreti del Mukhabarat.
Si scopre così che in Siria, secondo il punto di vista occidentale, ci sono almeno due guerre da combattere: una per sostenere gli insorti contro Assad, un'altra contro le infiltrazioni di al-Qaida e dei gruppi islamici radicali.
E per la verità ci sarebbe anche un terzo conflitto, quello che teme di più Ankara con l'ascesa dei curdi siriani, simpatizzanti del Pkk di Abdullah Ocalan, sempre più determinati a legare la loro causa per l'autonomia, e magari l'indipendenza, con quella del Kurdistan iracheno di Barzani e con i curdi della Turchia. Forse non è un caso che ieri i turchi continuassero ad ammassare uomini e armi ai confini con la Siria.
La popolazione siriana teme che la rivoluzione anti-regime possa essere influenzata o "dirottata" da un fanatismo islamico importato, con caratteristiche lontane dalla cultura siriana aperta alla pluralità religiosa e alla tolleranza. In questa guerra civile forse l'aspetto meno difficile, in prospettiva, è allontanare Assad dal potere, liberarsi dell'estremismo islamico, come dimostrano i casi dell'Iraq e dell'Afghanistan, è un affare più complesso. Quale Siria si voglia conservare dopo Assad rimane una domanda senza risposta. Ma è assai dubbio che una scelta ragionevole si possa lasciare alle armi o ai denari del Golfo.
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