
Il rischio è reale. Il Partito democratico si sta incartando intorno alle regole delle «primarie», con il pericolo di trasformare un modello di democrazia interna in una spaccatura che potrebbe essere fatale. Si è arrivati al momento delle decisioni tardi e male, quasi controvoglia. All'inizio Bersani ha avuto coraggio nell'accettare la sfida, senza nascondersi dietro lo statuto che identifica la figura del candidato premier con quella del segretario. Ma poi ci si è complicati la vita, man mano che cresceva l'inquietudine del gruppo dirigente messo sotto accusa dal sindaco di Firenze.
Ora, a poche ore dalla mega-assemblea dei democratici, si è alla ricerca del «magico punto di equilibrio», come dice Enrico Letta. Quale equilibrio? Ovviamente si tratta di fare in modo che il leader del centrosinistra sia scelto dagli elettori o simpatizzanti del centrosinistra: sotto questo aspetto un controllo è necessario come pure la pubblicità data ai nomi dei votanti, anche per un'esigenza di trasparenza. Ma l'idea di alzare un sistema di barriere volto a scoraggiare i cittadini dal recarsi ai «gazebo», fino all'obbligo di registrarsi in precedenza in un ufficio separato dal luogo del voto, somiglia a un disastroso «boomerang».
Il gruppo dirigente, benché impaurito, non può dare l'impressione di arroccarsi in un'estrema autodifesa contro il «barbaro alle porte». D'altra parte, la forza mediatica di Renzi ha coinciso fin qui con la sua capacità di raffigurarsi come uno spavaldo rinnovatore del Pd e della sinistra; se domani venisse percepito come uno che frantuma il partito per costruirsi una piattaforma personale, le cose cambierebbero. Certo, sarebbe un'ambizione legittima e la storia italiana è piena di scissioni. Ma equivarrebbe a un salto nel vuoto. E forse non a caso ieri sera il sindaco fiorentino ha offerto una disponibilità a trovare il punto di equilibrio sulle regole.
C'è una logica, visto che Renzi ha saputo costruirsi un'immagine di riformatore della sinistra: un piccolo Tony Blair con il Pd al posto del «Labour». E Blair la sua battaglia la fece sempre all'interno del partito laburista. Un Renzi fuori dal Pd che mette in piedi una sua lista destra/sinistra per il momento non è molto credibile.
Ne deriva che il buonsenso auspicato da Enrico Letta non dovrebbe essere impossibile. Le regole non potranno essere tanto asfissianti da tenere i cittadini alla larga dai «gazebo» (salvo che si tratti di militanti di lungo corso). Avendo deciso di attraversare il fiume, Bersani e i suoi avrebbero torto a tornare indietro a metà percorso. Anche perché il segretario del Pd sembra possedere la forza politica e organizzativa per prevalere nelle urne, soprattutto al secondo turno. A maggior ragione il suo interesse dovrebbe essere quello di sedurre una più larga fetta di opinione pubblica, non di indispettirla.
Il passaggio in ogni caso è stretto per i democratici. Del resto, chi accetta le primarie accetta tutte le incognite connesse. Poi si tratterà di dimostrare che Renzi non ha l'esclusiva del rinnovamento. Non va sottovalutata, ad esempio, la scelta di candidare Nicola Zingaretti alla regione Lazio. Zingaretti ha tutte le caratteristiche del moderno esponente di una classe dirigente di centrosinistra. È pragmatico e concreto. Renzi e Zingaretti: due modi diversi per leggere il riformismo di domani.
© 2012 Il Sole 24 Ore. Tutti i diritti riservati