
Il 2011 rimarrà probabilmente nella storia della finanza pubblica italiana come un anno in cui, attraverso tre provvedimenti adottati da due diversi governi nel breve volgere di sei mesi, è stato realizzato un intervento di contenimento del deficit e del debito pubblico tra i più ingenti che si ricordino. Gli interventi, dal lato delle entrate, hanno inciso profondamente sulla struttura del sistema fiscale italiano.
Ripercorrendo la lunga lista di interventi messi in campo dalle manovre, è possibile rintracciare numerosi riferimenti alle proposte che sono state avanzate nel dibattito internazionale che ha seguito il manifestarsi della crisi finanziaria nel 2008. La più evidente è il ribilanciamento del sistema fiscale italiano verso una struttura più simile a quella adottata in media dai Paesi Ue, con un ricorso maggiore alle imposte patrimoniali, ritenute generalmente meno dannose per la crescita economica, e a quelle indirette.
In un'ottica di più breve periodo, l'aumento dell'Iva con contestuale riduzione del prelievo sui redditi, in particolare di quella parte che grava sul costo del lavoro delle imprese, potrebbe consentire di realizzare una "svalutazione fiscale" aiutando la ripresa della domanda interna, e rispondendo così ad analoghe manovre effettuate dai nostri partner europei. In effetti, come rilevato di recente dalla Commissione europea, in gran parte i Paesi dell'Unione hanno affidato la correzione dei conti pubblici all'incremento dell'imposizione indiretta, a volte introducendo contestuali riduzioni della tassazione dei redditi da lavoro e da profitti. Sul fronte dell'Iva non mancano, tuttavia, ragioni di perplessità, sia sul piano dell'equità sia su quello dell'efficacia. Per quanto riguarda il secondo aspetto, sia i dati del Def relativi al 2011 sia quelli recentemente diffusi dal dipartimento delle Finanze e della Ragioneria generale indicano un andamento del gettito peggiore rispetto alle previsioni, che potrebbe riflettere, oltre all'inasprimento della recessione, problemi di liquidità e/o riduzioni della compliance, mettendo fortemente in dubbio l'opportunità dei nuovi, pesanti, aumenti dell'Iva previsti per i prossimi mesi.
A loro volta l'aumento dell'Irap sul settore finanziario e assicurativo e il ritorno della Dit, seppur sotto le nuove vesti dell'Ace, possono essere ricondotti al vivace dibattito sulla tassazione del settore finanziario: l'aumento dell'Irap può essere considerato come un modo per compensare il minor carico fiscale cui è soggetto il settore a causa dell'esenzione dall'Iva, mentre l'Ace dovrebbe favorire la ricapitalizzazione delle banche. Più in generale, però, sono incerti gli effetti dell'Ace sugli investimenti e sullo sviluppo, il che rende più discutibile la scelta di destinare a questa misura ingenti risorse finanziarie nel presente contesto di finanza pubblica.
Tuttavia, se è relativamente semplice razionalizzare singoli interventi o parti delle manovre, risulta molto più complesso individuare ex post un disegno complessivo che li leghi tra loro in maniera coerente. L'anticipo dell'Imu non ha risolto le criticità presenti nella tassazione degli immobili; manca un coordinamento fra la tassazione patrimoniale e quella reddituale, soprattutto per le attività finanziarie, resta confuso il disegno della tassazione dei redditi d'impresa e il ruolo dell'Irap.
Non c'è dubbio che le scelte operate siano state condizionate pesantemente dalla necessità di sostenere l'azione di consolidamento dei conti pubblici con gettiti certi e relativamente semplici da ottenere. In effetti, il governo Monti ha predisposto un disegno di legge delega che muove dall'ammissione che gli interventi del Dl 201 sono parziali e che servono modifiche più organiche e strutturate per finalizzare il nostro sistema fiscale verso obiettivi di crescita e di equità. Nonostante contenga diversi elementi positivi (la revisione del catasto degli immobili, il monitoraggio e riordino delle tax expenditures, la razionalizzazione delle imposte indirette e ambientali) la delega appare debole in due aree cruciali del nostro sistema: i redditi d'impresa e i redditi delle persone fisiche.
Per quanto riguarda i primi, la delega pone correttamente un problema di razionalizzazione, ma propone una soluzione che solleva più di una perplessità. In particolare, riprendendo in realtà quanto già proposto con la finanziaria per il 2008, si prevede di estendere a tutte le attività di impresa e professionali il modello di tassazione delle società di capitali: il reddito che l'imprenditore (professionista) ritrae dall'impresa (dallo studio professionale) come remunerazione del proprio contributo lavorativo viene tassato in Irpef come reddito ordinario, mentre gli utili non distribuiti sono tassati all'aliquota dell'imposta societaria. La proposta ha il merito di garantire la neutralità dell'imposta rispetto alla forma organizzativa attraverso cui svolgere l'attività d'impresa, ma al costo di consentire il differimento dell'imposta per i redditi più elevati. Non è necessaria ai fini della patrimonializzazione delle imprese già incentivata dall'introduzione dell'Ace. Non risolve infine la questione centrale dell'uniformità di trattamento fra rendimento del risparmio e redditi di lavoro o rendite, che riguarda essenzialmente il trattamento della componente Ace nell'ambito dell'imposizione personale.
Le lacune appaiono ancor più gravi con riferimento alla tassazione personale. In realtà, in questo ambito, la delega non prevede nulla di specifico. Non viene fatto alcun tentativo di risolvere le problematiche, rimaste sostanzialmente irrisolte quando non aggravate dalle riforme recenti, che affliggono l'Irpef fino a farla autorevolmente definire un'«imposta senza qualità». Non si intravvede alcuna ipotesi di riduzione del carico fiscale sui lavoratori a reddito effettivo medio-basso. Nel contesto della crisi e dello sforzo fiscale richiesto soprattutto a questa tipologia di contribuenti era lecito aspettarsi qualcosa di più.
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