
Primo, non prenderle. O almeno evitare autogol. Nell'ambizioso (ma ancora provvisorio) disegno del Governo di riduzione della spesa pubblica, c'è un intervento che non torna e rischia di essere controproducente per le stesse casse dello Stato: la riduzione automatica del 15% dei canoni di affitto pagati dalle amministrazioni pubbliche ai proprietari privati di immobili, contenuta nell'articolo 3 del decreto legge sulla spending review. Una norma fortemente discutibile sul piano della cultura giuridica, che per altro non è affatto detto produca il risultato sperato, una riduzione di spesa pubblica di 90 milioni.
L'abbattimento per legge del rendimento degli immobili affittati dai privati agli uffici pubblici comporterà, infatti, non soltanto una gravissima violazione di patti liberamente sottoscritti dalle parti, in virtù di una norma riesumata dall'ordinamento fascista (l'articolo 1339 del codice civile), ma rischia di produrre anche un effetto ulteriormente depressivo in un mercato immobiliare che già oggi è estremamente volatile.
Come per lo spread sui titoli d'estate di agosto, anche un fenomeno quantitativamente relativo sul mercato complessivo, come quello delle locazioni pubbliche, trasmette in questo momento segnali gravi a un mercato immobiliare pressoché bloccato. E può contribuire a produrre una più generale riduzione del valore degli immobili, anche quelli pubblici, proprio nel momento in cui il Tesoro pensa a un piano pluriennale di dismissioni con l'obiettivo di abbattere pesantemente il debito pubblico.
Nessuno mette per iscritto la cifra dei beni da vendere ma recentemente il ministro Grilli ha parlato di vendita per 15-20 miliardi l'anno per più anni e ha detto che sarebbe «bellissimo» abbattere il debito di 22-23 punti percentuali, quindi quasi 500 miliardi. Anche se la cifra fosse meno della metà e si fermasse a 200 miliardi in dieci anni e calcolassimo l'effetto depressivo dei valori degli immobili non al 15-20%, ma all'1%, la riduzione dei valori immobiliari sarebbe sempre comunque di gran lunga superiore a quei 90 milioni che si pensa di incassare dalla "sporca" manovra del taglio dei canoni.
Senza parlare dello specifico segmento pubblico, dove gli immobili affittati dalle amministrazioni corrispondono a circa metà del totale degli immobili occupati. Le locazioni passive della Pa sono, infatti, secondo i dati Demanio, 10.108 contro 11.849 immobili in uso governativo. I metri quadrati occupati in affitto sono 11,3 milioni per una spesa totale di 1.215 milioni.
Tutto questo per dire che è assurdo e controproducente che un proprietario di beni contribuisca a deprimere ulteriormente il mercato in un momento difficile come questo e lo faccia infrangendo pesantemente ogni regola, in una fase in cui vuole vendere. Più corretto sarebbe scegliere la via del mercato e le sue regole, che è sempre bene rispettare.
Tanto più che una riduzione dei rendimenti e dei valori immobiliari produrrà anche solo sugli immobili privati coinvolti un secondo effetto perverso, quello della riduzione del gettito fiscale. Perché il paradosso è che questi proprietari pagano, sugli immobili vessati, le imposte sull'affitto incassato e l'Imu, che inevitabilmente si ridurranno per effetto della manovra imposta dall'articolo 3.
Sembra esserci una sola strada per evitare questo autogol dello Stato e questo scempio del diritto e del mercato. Cancellare questa norma e rendere efficiente la spesa per affitti dello Stato seguendo il percorso di una negoziazione caso per caso e generalizzata, senza escludere fette privilegiate di mercato, nel rispetto delle regole e senza scorciatoie perverse.
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