
Questo dice oggi Giovanni Palombarini, Sostituto Procuratore Generale in Cassazione ed esponente di Magistratura Democratica, sulle colonne del Mattino di Padova.
Eppure Palombarini i radicali li conosce bene. E conosce bene le battaglie che da tanti anni loro fanno sul carcere. Battaglie anche da lui condivise in molti appuntamenti pubblici.
Eppure non sente le urla dei radicali. Preferisce non sentire e non vedere la lotta nonviolenta di Marco Pannella in sciopero della fame dal 2 ottobre per restituire umanità e giustizia a coloro che vivono nelle carceri italiane.
Preferisce bypassare i radicali e invitare Vendola a fare quello che i radicali fanno da sempre.
Bene se anche Vendola vorrà inserire la riforma della giustizia e del suo sistema carcerario nel suo programma elettorale. Ma i radicali ci sono. Eccome che ci sono. Anche e soprattutto a dispetto di chi non li vuole vedere e sentire.
Maria Grazia Lucchiari
Componente Comitato Nazionale Radicali Italiani
Il Mattino di Padova 15.11.2010 pag.5
Carceri esplosive, ma dimenticate
di Giovanni Palombarini
Componente Comitato Nazionale Radicali Italiani
Il Mattino di Padova 15.11.2010 pag.5
Carceri esplosive, ma dimenticate
di Giovanni Palombarini
È mai possibile che nessuna forza politica, rappresentata o no in Parlamento, non se la senta di dire ad alta voce che un provvedimento di amnistia e indulto è urgente e indispensabile, e quindi di proporlo a tutti i parlamentari? E’ troppo sperare che almeno Nichi Vendola, che va elaborando importanti indicazioni sul tema dei diritti, indichi un provvedimento del genere come un punto fermo del suo programma in vista della prossima scadenza elettorale? Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel rilanciare il programma del governo, non ha neppure accennato al problema del carcere. Non ne parlano coloro che in questi giorni vengono indicati come candidati a sostituirlo. Come mai? Eppure la situazione è sotto gli occhi di tutti.
I detenuti sono circa 69.000, un terzo dei quali tossicodipendenti e più di un terzo stranieri. Mai, nella storia della Repubblica, ce ne sono stati tanti. La capienza dei 206 istituti italiani è di 44.000. I suicidi e i tentativi di suicidio sono numerosissimi. A fronte di una simile situazione, gli agenti in servizio sono 18.000 a fronte di un organico di 37.348. Non può essere che a fronte del continuo aumento del sovraffollamento l’unica cosa alla quale si sa pensare sia la costruzione di nuovi stabilimenti.
Già l’intervento penale dovrebbe in generale essere limitato, ma poi il carcere deve essere la extrema ratio. Invece, non a caso, ci si muove nella direzione contraria. Non si introducono pene non detentive, si limita al massimo l’affidamento in prova, che pure ha dato buoni risultati, per i recidivi si stabiliscono limiti al godimento dei benefici penitenziari, che hanno effetti micidiali.
La verità è che vi è una novità, rispetto al problema del carcere e del sovraffollamento. Una novità significativa, che dà il senso di un cambiamento radicale nella concezione stessa della pena. Vi è un’accettazione esplicita, addirittura programmata, della prospettiva di un numero indeterminato, progressivamente crescente, di detenuti. Quasi a voler dire: per ogni tipo di devianza marginale, comunque determinata, la risposta è una sola, il carcere, cioè l’esclusione.
Una politica indifferente alle ragioni del disagio sociale e alle cause dei fenomeni collettivi complessi, quali ad esempio l’immigrazione e le tossicodipendenze, non è solo timorosa dell’impegno e dei costi necessari per affrontarli fino in fondo, ma ha operato una scelta, quella dell’emarginazione forzata dei soggetti che ne sono il prodotto. Non a caso si è parlato di un passaggio dallo stato sociale allo stato penale. Il ceto politico dirigente non si preoccupa di contrastare paure, sentimenti e risentimenti che maturano in una società sempre più impoverita, ma ha anzi scelto di assecondarli. Chi sbaglia paga.
L’abbandono del welfare state impone di governare in altro modo, più semplice, la criticità sociale. Di qui la criminalizzazione e la carcerazione crescenti, che presentano tra gli altri il vantaggio di trovare larghi consensi elettorali. Non resta che sperare che nel panorama politico un qualche nuovo protagonista si faccia carico del problema, per indicare una strada alternativa all’attuale tendenza.
I detenuti sono circa 69.000, un terzo dei quali tossicodipendenti e più di un terzo stranieri. Mai, nella storia della Repubblica, ce ne sono stati tanti. La capienza dei 206 istituti italiani è di 44.000. I suicidi e i tentativi di suicidio sono numerosissimi. A fronte di una simile situazione, gli agenti in servizio sono 18.000 a fronte di un organico di 37.348. Non può essere che a fronte del continuo aumento del sovraffollamento l’unica cosa alla quale si sa pensare sia la costruzione di nuovi stabilimenti.
Già l’intervento penale dovrebbe in generale essere limitato, ma poi il carcere deve essere la extrema ratio. Invece, non a caso, ci si muove nella direzione contraria. Non si introducono pene non detentive, si limita al massimo l’affidamento in prova, che pure ha dato buoni risultati, per i recidivi si stabiliscono limiti al godimento dei benefici penitenziari, che hanno effetti micidiali.
La verità è che vi è una novità, rispetto al problema del carcere e del sovraffollamento. Una novità significativa, che dà il senso di un cambiamento radicale nella concezione stessa della pena. Vi è un’accettazione esplicita, addirittura programmata, della prospettiva di un numero indeterminato, progressivamente crescente, di detenuti. Quasi a voler dire: per ogni tipo di devianza marginale, comunque determinata, la risposta è una sola, il carcere, cioè l’esclusione.
Una politica indifferente alle ragioni del disagio sociale e alle cause dei fenomeni collettivi complessi, quali ad esempio l’immigrazione e le tossicodipendenze, non è solo timorosa dell’impegno e dei costi necessari per affrontarli fino in fondo, ma ha operato una scelta, quella dell’emarginazione forzata dei soggetti che ne sono il prodotto. Non a caso si è parlato di un passaggio dallo stato sociale allo stato penale. Il ceto politico dirigente non si preoccupa di contrastare paure, sentimenti e risentimenti che maturano in una società sempre più impoverita, ma ha anzi scelto di assecondarli. Chi sbaglia paga.
L’abbandono del welfare state impone di governare in altro modo, più semplice, la criticità sociale. Di qui la criminalizzazione e la carcerazione crescenti, che presentano tra gli altri il vantaggio di trovare larghi consensi elettorali. Non resta che sperare che nel panorama politico un qualche nuovo protagonista si faccia carico del problema, per indicare una strada alternativa all’attuale tendenza.
http://venetoradicale.ilcannocchiale.it/post/2562990.html
15 Novembre, 2010 - 23:48
Diario
Fonte: http://venetoradicale.ilcannocchiale.it/post/2562990.html [3]