Un altro futuro per l'umanità
In che mondo viviamo? E soprattutto in che mondo vivremo? Certo quello di oggi è molto diverso da quello dei nostri nonni; e da qui in avanti i cambiamenti saranno ancora più rapidi e molto più profondi. La nostra quotidianità è ormai legata al cellulare, ed è così dappertutto.
In India ci sono più cellulari di quante non siano le case dotate di servizi igienici, la tecnologia sta cambiando la nostra vita. E la cura delle malattie. In certe aree dell'Africa, dove i medici sono pochi e quei pochi sono lontani, ti cura il cellulare ancora prima del dottore. Chi l'avrebbe detto? E quello degli smartphone è solo un esempio.
Milioni e milioni di pagine web con foto e video accessibili a chiunque hanno già modificato i comportamenti di ciascuno di noi e stanno per condizionare le masse in modo che anche solo dieci anni fa nessuno avrebbe nemmeno potuto immaginare. Qualcuno sostiene che nel giro di vent'anni e forse anche prima il nostro mondo sarà popolato di robot intelligenti, più di quante non siano le automobili oggi e ce ne saranno in ogni famiglia, fabbrica, ufficio. Sarà un bene? Non lo so, non lo sa nessuno.
C'è anche chi è scettico: «Computer sempre più intelligenti non sapranno fare mai quello che fa il cervello dell'uomo». «Nemmeno se fossero miliardi di volte più veloci?», hanno chiesto a Stuart Russell, un professore di intelligenza artificiale di Berkeley. E lui: «Ci servirà solo ad avere qualche risposta sbagliata molto, ma molto più in fretta».
È con questi presupposti che «Nature» di questi giorni ha affrontato con l'aiuto di grandi scienziati un tema un po' speciale: provare a immaginare le conseguenze che potranno avere le decisioni che prendiamo oggi sulle generazioni future. È un esercizio che andrebbe fatto più spesso, specie da parte di chi si trova in posizione di responsabilità e soprattutto per quanto riguarda la salute.
Le due sfide più importanti? Cambiamenti del clima e povertà.
Se sapremo affrontarli insieme, sostiene Nicholas Stem che insegna politica ed economia a Londra, avremo un mondo sicuro e persino prosperità; se lasciamo andare le cose come vanno adesso, chi viene dopo di noi avrà enormi problemi e intere generazioni saranno a rischio. Quanto alle conseguenze delle immissioni di gas carboniosi nell'atmosfera, per esempio, i modelli impiegati finora dagli economisti non tengono conto di variabili che ai fini della salute dell'uomo sono molto rilevanti: i conflitti, per far solo un esempio, che sono ormai ovunque e gli spostamenti di chi fugge dalla povertà e dalle guerre. E non basta.
Quanti si ammaleranno in più per ogni grado di aumento della temperatura della Terra se non facciamo questo e quest'altro? E di che malattie? E quanti moriranno? E in che parte del mondo? Sono domande a cui finora pochissimi hanno provato a rispondere e non lo si è fatto nemmeno nella conferenza di Parigi del 2015. Come se la vita di chi verrà dopo di noi fosse meno importante della nostra.
Facciamo un esempio molto concreto. Immaginiamo un aumento della temperatura di 1,5-2 gradi; quando arriverà, le conseguenze non saranno uguali dappertutto. Intere aree del Bangladesh saranno soggette ad alluvioni. E lo stesso succederà in Egitto e in molte città e isole dell'Asia. L'Europa del sud, molta parte dell'Africa e delle Americhe andranno incontro a fenomeni di desertificazione. E tutto ciò indurrà migrazioni di massa. Questa volta saranno centinaia di milioni di persone a muoversi e i conflitti diverranno inevitabili. Siamo preparati? A giudicare da quello che sta facendo l'Europa a fronte di centinaia di migliaia di persone non mi pare proprio.
Non solo, ma c'è da fare i conti con la sovrappopolazione. Siamo in 7 miliardi e mezzo adesso e nel 2100 saremo 11 miliardi e 200 milioni, un aumento del 50 per cento. Chi crescerà di più in senso assoluto sarà l'Africa, sotto il Sahara — sono già un miliardo e arriveranno a 4 o poco meno — poi nell'ordine il Sud dell'Asia, l'India, il Pakistan e il Nord Africa incluso l'Egitto. Se non si fa qualcosa, tante persone così, in Paesi già molto poveri, saranno un ostacolo formidabile allo sviluppo di quelle aree del mondo e questo non va visto come un problema loro, perché metterà quasi certamente in crisi l'equilibrio globale.
L'unico modo per evitarlo è investire in educazione e pianificazione familiare, con un'attenzione speciale alle gravidanze indesiderate che nei Paesi poveri sono ormai più del 40 per cento del totale. Uno studio recente fatto a Taiwan e un altro fatto in Sud Corea hanno dimostrato come ci sia un rapporto diretto fra capacità di controllare le nascite e livello di benessere delle popolazioni.
Si è anche visto che non basta mettere a disposizione servizi e strumenti di contraccezione [3], è necessario coinvolgere la società nel suo complesso però dopo aver coinvolto i leader politici e le organizzazioni religiose, se no è tempo sprecato. L'hanno fatto nel 1977 nella regione di Matlab in Bangladesh: l'uso dei contraccettivi è passato dal 5 al 33 per cento e i bambini che sono nati hanno potuto avere un'educazione migliore. Lo stesso è successo più recentemente in Iran e in Ruanda.
Se lo si facesse in tutta l'Africa Sub-Sahariana le previsioni di crescita per il 2100 andrebbero riviste al ribasso (almeno un miliardo di persone in meno). Il fatto che l'uso dei contraccettivi in Asia e in America Latina sia in lento ma progressivo aumento fa sperare che presto possa succedere anche in Africa. Dove però si dovrà fare molto di più di quanto non sia stato fatto finora in termini di risorse da affidare ai ministeri della salute per educazione, implementazione di metodi contraccettivi e infrastrutture. Con l'obiettivo dichiarato che donne e uomini dei Paesi a maggiore rischio di crescita non controllata abbiano il diritto di scegliere liberamente quanti figli avere, quando e a che distanza uno dall'altro, insomma gravidanze indesiderate non ce ne dovrebbero più essere.
Succederà? Forse, a patto che le agenzie internazionali che si occupano di salute e i filantropi che hanno a cuore la sorte dei Paesi poveri dedichino attenzione a questo problema e siano consigliati meglio (l'inchiesta di «Nature» fa notare che la Banca mondiale ha migliaia di economisti fra i suoi dipendenti, ma pochissimi studiosi di sanità pubblica). Insomma la crescita demografica dovrebbe far parte dell'agenda dei politici di tutto il mondo come il primo dei problemi che potrebbero mettere a rischio il benessere delle società che verranno. Non ci potrà essere nessuna prospettiva di sviluppo per i Paesi emergenti se non si trova il modo di risolvere questo problema. Ce la faremo? Non lo so, non lo sa nessuno.
Ora, ammettiamo per un momento che si trovi il modo di contenere la crescita demografica; a quel punto ci si potrebbe cominciare a chiedere come saranno i bambini di domani. E non è una domanda retorica perché gli scienziati oggi sanno fare gene-editing [4] (hanno imparato cioè a modificare il genoma, ci si possono inserire porzioni di Dna per esempio o rimuoverne altre, si può addirittura sostituire una parte di Dna — quella che contiene la variante genetica che si vuole eliminare — con una sana). Lo faranno davvero? E perché? Penso di sì e anche molto presto, con l'obiettivo di correggere anomalie genetiche, quelle che sappiamo essere responsabili di tante malattie rare.
Ma fare gene-editing vuol dire invariabilmente passare il gene nuovo, che abbiamo introdotto in un certo embrione al posto di uno malato, alle generazioni future. Insomma, quella modificazione genetica è per sempre. E i problemi etici? Se lo si fa per eliminare certe tare ereditarie, che se no si trasmetterebbero di padre in figlio, non vedo nessun problema. E a pensarci bene un po' lo si fa già. Quando per esempio selezioniamo gli embrioni [5] della fecondazione in vitro per evitare di trasferire nell'utero della mamma quelli con alterazioni del Dna associate a malattie. Ma c'è chi è contro, e allora è bene pensarci adesso prima che la disponibilità di tecniche come Crispr-Cas9 [6] (quella che consente gene-editing appunto) ci mettano di fronte a situazioni impreviste che poi si finisce per affrontare in emergenza sull'onda delle emozioni.
Nessuno dei genitori di bambini con malattie ereditarie ha dei dubbi sul fatto che, pur di correggere quell'alterazione, sarebbe disposto a qualunque manipolazione del Dna. E chi fa le leggi, a me pare, non può non tener conto del punto di vista dei genitori dei bambini che nascono (o nascerebbero) con tare ereditarie. Non solo, ma quando si discute di questioni etiche, la prima voce da ascoltare dovrebbe essere proprio quella degli ammalati. O no? Ma al mondo ci sono i Comitati di bioetica (e ce ne sono dappertutto) fatti spesso di professionisti del «no», anche contro l'interesse degli ammalati e il buon senso. E così l'Accademia nazionale di scienza e medicina degli Stati Uniti, insieme a quelle della Cina e della Gran Bretagna, ha chiesto una moratoria per questa tecnologia: non si farà per adesso.
Ma altri bioeticisti — anche loro non sono tutti uguali — e quasi tutti gli scienziati contestano questa presa di posizione per lo meno quando si è di fronte a gravi tare ereditarie che si potrebbero eradicare. «Perché no?», dicono i medici. In effetti non c'è nessuna ragione per non ricorrere a gene-editing, se questo potesse davvero eliminare tante malattie dalla faccia della terra.
Ma chi è contro per principio usa un altro argomento: «Dove poniamo il confine?». In altre parole cos'è la malattia? Potremmo considerare anche l'obesità come una malattia o la predisposizione a drogarsi o ad abusare di alcolici. Di questo passo — dicono — finiremo per «ricreare» un uomo perfetto. E c'è chi arriva a sostenere che la disabilità porta progresso: «Perché avremmo sviluppato sistemi sofisticatissimi per migliorare l'udito se non per venire incontro a chi ha problemi di sordità?». E lo stesso vale per le protesi degli arti e per tanto d'altro... Mah... a me non sembra un grande argomento.
E neanche quello di Rosemarie Garland-Thomson, che insegna alla Emory University; lei sostiene che le leggi per la disabilità approvate recentemente negli Stati Uniti hanno aiutato la società a crescere (e su questo non ci sono dubbi), ma sostiene anche che confrontarci ogni giorno con chi è meno fortunato di noi rende il mondo much more human for everyone, serve a migliorare la nostra società insomma. Non sono d'accordo, per niente. Lo si dovrebbe chiedere a chi è costretto su una sedia a rotelle o a chi non vede: «Meglio poter camminare e vedere o vi va bene di restare così per consentire a noi di vivere in un mondo migliore?».
Carol Padden è una professoressa di lingue dell'Università della California a San Diego, lei ha un grave difetto di udito, ma non si considera malata e pensa che l'umanità perderebbe moltissimo se un domani grazie al gene-editing sparissero le disabilità. E una prospettiva diversa, ma quanti sono i sordi che rifiutano impianti cocleari o interventi chirurgici che possano migliorare le loro capacità solo perché in questo modo si assicura diversità al genere umano? E se ce ne fossero (e Carol è una di loro) andrebbero rispettati e certamente capiti. Comunque sia, chi ha paura dei progressi della scienza deve sapere che purtroppo anche quando si potrà fare gene-editing nascerà forse qualche bambino malato in meno, ma malattie e disabilità non spariranno certo dall'oggi al domani (purtroppo).
E non credo si debba mettere nessun confine; chi di noi vorrebbe un figlio destinato a drogarsi, se fosse possibile evitarlo? Certo, c'è la questione del libero arbitrio e se sia giusto o meno interferire col corredo genetico di quel ragazzo privandolo della libertà di decidere se drogarsi o meno, pur in presenza di familiarità o anche solo di una predisposizione a farlo. Tutto questo esula dalla competenza della scienza, è materia per filosofi e bisogna certamente coinvolgere la società civile e chi legifera.
Gene-editing è un'arma a disposizione dei medici come tante altre. In questo momento prima di porci il problema se sia giusto o no usarla, dobbiamo assicurarci che questa tecnica funzioni e che non si associ eventualmente a problemi magari più gravi della malattia che vogliamo guarire e che poi si trasmettano alle generazioni successive. Insomma è tutto molto complesso. Quando lo si potrà fare e sarà abbastanza sicuro, si dovrà anche tener conto del fatto che disabilità non significa per forza una vita infelice o meglio non per tutti; come sempre decidere in medicina vuol dire tener conto di circostanze particolari che possono essere diverse per individui diversi pur nell'ambito della stessa malattia.
Ed ecco un tweet di Dan MacArthur, professore di genetica ad Harvard: «Previsione: i miei nipoti verranno da embrioni selezionati e edited (insomma modificati geneticamente, ndr) e per l'umanità non cambierà nulla, sarà come vaccinarsi».
Fonte: http://www.associazionelucacoscioni.it/rassegnastampa/un-altro-futuro-lumanit [7]
