Staminali contro la sclerosi multipla, tra rischi e benefici
Un approccio più drammatico nel trapianto di staminali ematopoietiche contro la sclerosi multipla ha ottenuto buoni risultati. Ma si tratta di un trattamento rischioso e lo studio è stato condotto su un campione piccolo e senza controlli
Si torna a parlare di staminali ematopoietiche contro la sclerosi multipla [3]. L’occasione è la pubblicazione, su Lancet, di uno studio [4] che ha mostrato l’efficacia del trapianto di staminali ematopoietiche su un piccolo gruppo di pazienti sul lungo termine. Anche se, sottolineano i ricercatori, si tratta di untrattamento pericoloso e i risultati dello studio, per quanto incoraggianti, vanno presi con cautela.
La sclerosi multipla, malattia che secondo le ultime stime solo in Italia colpisce circa 110mila pazienti, è una patologia a base immunitaria, in cui le cellule impazzite sferzano il loro attacco anche verso i componenti self dell’organismo, portando nello specifico alla distruzione della guaina mielinica che ricopre le fibre nervose. L’idea, trapiantando le staminali ematopoietiche autologhe [5] (ovvero provenienti dallo stesso paziente), è quella di si è quella di resettare il sistema immunitario, riportandolo indietro fino allo stadio in cui le cellule non hanno sviluppato le capacità autodistruttive (le staminali ematopoietiche sono infatti precursori del sistema immunitario). Per farlo gli approcci di questo tipo si concentravano sull’utilizzo di immunosoppressori per sopprimere il sistema immunitario maturo prima del trapianto, da cui ne sarebbe derivato uno nuovo.
Nel nuovo studio però un team di ricercatori canadesi ha cercato di utilizzare un approccio più drammatico, tentanto di distruggere e non solo di sopprimere il sistema immunitario maturo del paziente sottoposto a trapianto. Nello studio sono stati coinvolti 24 pazienti di età compresa tra i 18 e i 50 anni, tutti con grado di disabilità moderato-grave e malattia in fase attiva. Prima del trapianto i ricercatori hanno sottoposto i pazienti a un ciclo pesante di chemioterapia, con busulfano, ciclofosfamide e globulina anti-timociti di coniglio. Un approccio simile a quelli già utilizzati nel campo, ma più forte rivendicano i ricercatori, grazie anche a una combinazione di molecole in grado di attraversare la barriera ematoencefalica e di distruggere così, almeno potenzialmente, le cellule del sistema immunitario mature e dannose dal sistema nervoso centrale.
I risultati hanno mostrato che un approccio del genere sembrerebbe dare buone speranze. Il tasso di sopravvivenza a 3 anni libero da attività da malattia (misurato come ricadute nei sintomi, nuove lesioni e progressioni della disabilità) era di circa il 70%. Se – prima dei trapianti – le ricadute erano di circa 1,2 l’anno, nessuna ricaduta è stata osservata nel follow-up (dai 4 ai 13 anni), e solo una nuova lesione è stata trovata nelle scansioni effettuate dopo trapianto. Anche dal punto di vista della disabilità ci sono stati notevoli miglioramenti per molti pazienti, tanto che sei, dopo tre anni, sono stati in grado di tornare a lavorare o a studiare. Un paziente però è morto in seguito agli effetti della chemioterapia, e un terzo del totale ha sviluppato effetti tossici moderati in risposta alla terapia.
La terapia quindi potrebbe funzionare ma non senza costi elevati per la salute. Senza considerare che lo studio ha riguardato un piccolo campione, senza controlli, ha ricordato anche Mark Freedman della University of Ottawa, che aiuta a contestualizzare i risultati dello studio di cui è a capo: “Dal momento che parliamo di un trattamento aggressivo, i potenziali benefici dovrebbero essere pesati con i rischi di potenziali complicazioni associati con i trapianti di staminali autologhe ematopoietiche, e questo trattamento dovrebbe essere offerto solo da centri specialistici con esperienza sia nel campo della sclerosi multipla che nelle terapie con staminali, all’interno di trial clinici”. In futuro, i prossimi passi sul campo saranno quelli di cercare di ridurre i rischi associati al trattamento e di capire anche quali sono i pazienti più idonei a ricevere questa terapia.
