
“Voi salvereste il sindacato? No. Ha perso la sua missione, ora è una lobby partito. A pagare? I non garantiti”.
Articolo pubblicato su “Gli Altri” del 3 aprile 2013 (pag. 5 con richiamo in copertina)
Per comprendere quale sia davvero il ruolo del sindacato oggi in Italia, e per darne una valutazione che non sia viziata, come troppo spesso accade, da pregiudizi, positivi o negativi, “partiti presi” e ideologismi, il modo migliore è partire dai (e attenersi ai) fatti.
Troppo spesso nel nostro Paese non si fa quello che si dice, non si dice quello che si fa, o più semplicemente si dice una cosa e se ne fa un’altra. Altrettanto spesso, dietro la difesa di principi alti e nobili si nascondono azioni che di alto e nobile non hanno proprio nulla. In questo senso, un caso di scuola è rappresentato dalla vicenda del Protocollo sul welfare adottato dal Governo Prodi nell’estate del 2007.Ricordate?
Nemmeno tre anni prima, all’inizio del 2005, l’allora Ministro del Welfare, Roberto Maroni, aveva introdotto lo “scalone”, ovvero un deciso innalzamento dell’età pensionabile, prevedendone l’entrata in vigore a partire dal 1° gennaio 2008. Era una riforma necessaria (troppo alta la spesa annua per le pensioni, i due terzi di tutta la spesa sociale, oltre il 15 per cento del prodotto interno lordo; un’età pensionabile tra le più basse dell’Unione europea, a fronte dell’aumento costante delle aspettative di vita; troppo poche le risorse destinate agli ammortizzatori sociali), ma per evitare di pagarne il prezzo politico, a fronte della fortissima opposizione del sindacato, la maggioranza di allora, di centrodestra, la fece per finta: questo voleva dire stabilirne l’entrata in vigore in una data che sarebbe caduta nella legislatura successiva.
Torniamo al 2007. Romano Prodi può contare su una maggioranza risicatissima, e il diktat del sindacato è netto: o fai fuori la “Maroni”, o facciamo politicamente fuori te. Ma sostituire lo “scalone” con i più blandi “scalini” pretesi da sindacati e sinistra rossoverde, costa tanto: dieci miliardi di euro. Per provvedere alla copertura finanziaria del provvedimento, si ricorre a una trovata da “Manuale dell’ingiustizia sociale”.
Domanda: qual è la “gallina dalle uova d’oro dell’Inps”? Risposta: la Gestione separata. E chi è iscritto alla Gestione separata? È presto detto: un esercito di precari, parasubordinati e lavoratori autonomi non iscritti a ordini professionali, ovvero le stesse persone che non vedranno mai una pensione, se non da fame, e che comunque dovranno lavorare fino a ben oltre il settantesimo compleanno per versare contributi a sufficienza.
Ed ecco la bella pensata: cinque di quei dieci miliardi di euro vengono trovati aumentando di tre punti percentuali le aliquote contributive a carico degli iscritti alla Gestione separata. Insomma, per consentire a chi sta meglio – lavoratori con contratto a tempo indeterminato, contributi regolarmente versati, previdenza, assistenza e quant’altro – di continuare ad andare in pensione a 58, 59 anni, la fai pagare, letteralmente, a chi sta peggio. E siccome ai sapientoni in questione non manca un certo macabro senso dell’ironia, il Protocollo presenta l’operazione tra le misure “a favore dei giovani”.
Ma a volte “i fatti si vendicano, e divengono misfatti”, e alla fine del 2011 si sono vendicati con gli interessi: il sindacato ha voluto imporre, contro ogni evidenza, ragionevolezza e principio di giustizia sociale, gli “scalini” al posto dello “scalone”? Bene, ci siamo beccati lo “scalonissimo” della riforma Monti-Fornero, divenuto inevitabile proprio per il ruolo da veto player giocato negli anni dal sindacato. Per inciso: nel 2006 i Radicali avevano proposto l’innalzamento graduale dell’età pensionabile a 65 anni per tutti entro il 2018. L’Inps stimò i risparmi conseguenti, a regime, in oltre 7 miliardi di euro l’anno, che si sarebbero potuti destinare all’introduzione di un ammortizzatore sociale universale. Quella stessa riforma che al sindacato non sembra interessare molto, nemmeno a parole. E sapete perché? Perché il sistema gira tutto intorno a quel grande parcheggio senza uscita che è la Cassa integrazione, i cassaintegrati sono conteggiati come occupati anche se non lo sono più, e alla Cassa integrazione si accede solo se si rientra in particolari requisiti quanto a dimensione, settore, numero di occupati e altro.
Se lavoro per la Fiat e la Fiat va in crisi, sono coperto. Se lavoro per una piccola impresa, e quella piccola impresa va in crisi, vale il principio “arrangiati e spera”. Eppure sempre di esseri umani si tratta, sempre cittadini siamo. Insomma, “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri”: Orwell aveva già previsto tutto.
Si potrebbe parlare, e spero che se ne possa parlare presto, di molte altre cose: della difesa tetragona dell’articolo 18 e di Termini Imerese; dell’articolo 39 della Costituzione e delle ragioni della sua mancata attuazione; della contrattazione collettiva, della contrattazione di secondo livello e di un sistema di relazioni industriali che fa scappare imprenditori e investimenti; di un sindacato che abdica alla sua “ragione sociale” (migliorare i salari, le condizioni di lavoro, l’orario, etc.), si fa partito politico e pratica lo sciopero politico; delle trattenute automatiche in busta paga, per cui la Confindustria e l’Inps fanno da esattori proprio in nome e per conto del sindacato, mettendo le mani anche nelle tasche dei pensionati: non proprio trasparente e “sano” come sistema, no?
Ma poi ti leggi i dati sul tesseramento 2011 della Cgil, e capisci: i lavoratori attivi sono 2,6 milioni. I pensionati sono quasi tre milioni. I disoccupati sono poco meno di dodicimila (per inciso, -21,3 per cento rispetto al 2010). E allora capisci, eccome se capisci…
Michele De Lucia, Tesoriere di Radicali italiani
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