
Il seguente articolo è stato pubblicato su Italianieuropei - febbraio 2012
Sicurezza, difesa, diplomazia, ricerca e sviluppo sono solo alcune delle funzioni di governo che gli Stati membri dell'Unione europea farebbero bene a trasferire a livello federale. Beneficiare di un bilancio comunitario, più solido e consistente rispetto a quelli nazionali, significa favorire la stabilizzazione macroeconomica e i meccanismo di redistribuzione.
di Emma Bonino e Marco De Andreis (*)
Un numero crescente di persone è convinto che, se vuole salvare l’unione monetaria, l’UE( o l’eurozona) debba avere un Tesoro, o un ministro delle finanze - ovvero che l’Europa sia in grado di tassare e spendere.
Oggi non è questo il caso: l'UE non gode praticamente di alcun potere di tassazione, essendo il suo bilancio sul lato delle entrate costituito quasi esclusivamente da trasferimenti dai paesi membri. Inoltre, le spese - che nel loro complesso sono trascurabili, pari all'1% circa del Pil dell'Unione - non finanziano quasi nessuna funzione di governo: si tratta sostanzialmente di sussidi, a partire da quelli agricoli che costituiscono quasi la metà dell’intero bilancio.
Quindi l'esistenza di un Tesoro presuppone che vengano imposte delle tasse e che vi siano delle spese, che a loro volta implicano l'esistenza di un bilancio. Riflettendo sul bilancio dell'Unione con mente aperta la domanda giusta da farsi dovrebbe essere: "A che pro"?
Anche escludendo le tipiche maggiori voci di spesa pubblica, come la sicurezza e la previdenza sociali, restano pur sempre altre funzioni di governo che secondo la teoria del federalismo fiscale, il principio di sussidiarietà e il buon senso andrebbero assegnate al livello del governo centrale europeo. In particolare le seguenti: sicurezza e difesa; diplomazia e politica estera (compresi gli aiuti allo sviluppo e gli aiuti umanitari); controllo delle frontiere (in analogia alla homeland security degli Stati Uniti); progetti infrastrutturali con effetti di rete su scala europea; grandi progetti di Ricerca e Sviluppo (R&S); redistribuzione sociale e regionale.
La difesa e la politica estera sono forse gli ultimi settori appannaggio della sovranità statale che costituiscono ancora un tabù. Tuttavia, la crescente perdita di influenza negli affari internazionali che caratterizza persino i paesi europei più importanti è sempre più evidente agli occhi di tutti. Gli sforzi compiuti dagli Stati membri dell'Unione a Bruxelles per concordare una posizione comune su gran parte delle questioni internazionali sono talmente continui e diffusi che l'inclusione di queste funzioni nell'elenco non necessita di ulteriori spiegazioni.
Invece di guardare a noi stessi dall'interno dell'Unione forse è più utile tentare di osservarci dalla prospettiva dei paesi non europei. Vent'anni fa, quando Cina, India e Russia non partecipavano all'economia di mercato internazionale e Messico, Brasile e Sudafrica e altri paesi versavano ancora in una condizione di sottosviluppo troppo forte da avere un certo peso, era forse comprensibile che tutte le nazioni europee, e in particolare quelle più grandi, rivendicassero il diritto di partecipare a tutti i consessi internazionali. Oggi un simile atteggiamento diventa sempre più ridicolo e non è più sostenibile.
La soluzione chiaramente non è estendere la partecipazione alle varie riunioni - trasformando ogni vertice del G-8 in un G-20. Nel sistema della Nazione Uniti - dal Consiglio di sicurezza alle istituzioni di Bretton Woods - quali saranno i paesi a cedere il loro posto agli Stati sopra citati, se non Francia, Regno Unito, Italia e Germania?
Questi ultimi sono ovviamente i primi candidati, non solo perché sono già stati sorpassati in termini demografici, e presto lo saranno anche in base al Pil, dai paesi di cui sopra, ma anche perché essi hanno un'alternativa comune rappresentata dall'Unione europea.
La redistribuzione - l'ultima voce nell'elenco delle funzioni di governo da assegnare al livello federale dell'Unione - è costituita da due elementi, uno sociale e uno regionale. Il primo consisterebbe in un programma federale di sussidi alla disoccupazione. Il secondo verrebbe mantenuto per il tempo necessario ad aiutare i paesi che hanno aderito all'Unione europea nel periodo 2004-2007, e coloro che potrebbero seguire il loro esempio in futuro, per colmare le differenze di tenore di vita rispetto al resto d'Europa. Si noti che un terzo dei fondi del bilancio attuale dell'Unione viene già destinato a questa tipologia di sussidi.
Le risorse comprese in questo capitolo sarebbero trasferite agli Stati membri più ricchi solo occasionalmente, per affrontare emergenze specifiche quali l'attuale crisi finanziaria della Grecia. In tali situazioni, i relativi fondi potrebbero essere gestiti in abbinamento al meccanismo successore del FESF, cioè il Meccanismo europeo di stabilità (MES).
Poiché le risorse da prevedere per tutte queste funzioni di governo comporterebbero un bilancio notevolmente maggiore per l'economia europea nel suo complesso rispetto a quello previsto attualmente, dovrebbe diventare possibile svolgere anche, all’occorrenza, una funzione di stabilizzazione macroeconomica a livello federale. Bruxelles avrebbe a questo punto la possibilità di trasferire una quantità apprezzabile di risorse dagli Stati in condizioni migliori a quelli con una situazione più critica, tassando maggiormente i primi e spendendo di più nei secondi.
L'offerta di altri beni pubblici dovrebbe restare al livello degli Stati membri, dove in ampia parte è collocata attualmente, così da soddisfare le preferenze locali. Tra questi figurano istruzione, cultura, sanità, trasporti e così via. In questi e in altri casi l'Unione dovrebbe semplicemente rinunciare a qualunque ruolo abbia attualmente, salvo agire come regolatore del mercato interno o coordinare, ove necessario, le azioni intraprese a livello nazionale.
Adottare misure di portata modesta in svariati ambiti, anche al di fuori delle competenze principali e di quelle più logiche, è esattamente ciò che rende l'Unione vulnerabile alle accuse di "federalismo strisciante" e, ancor peggio, di inefficienza. Per usare il linguaggio dei conservatori britannici, "rimpatriamo" quei poteri (o pseudo-poteri).
E rimpatriamo anche la Politica agricola. I relativi sussidi rappresentano il 43% dell'attuale bilancio dell'Unione e ne costituiscono la voce più ampia. Vi è una immensa letteratura contenente aspre critiche a tali sussidi per gli effetti negativi sullo stanziamento delle risorse, sui prezzi a livello nazionale e internazionale, sul commercio mondiale, sulla qualità degli alimenti e sull'ambiente.
La loro permanenza testimonia la capacità di pressione degli agricoltori europei in merito allo stanziamento delle limitate risorse assegnate al bilancio comunitario.
Attualmente il bilancio comprende anche fondi per la ricerca scientifica, che nel 2011 hanno raggiunto i 9 miliardi di euro. La spesa per R&S dei 27 Stati membri, pari al 2% circa del loro Pil complessivo, dovrebbe aver superato i 250 miliardi di euro nello stesso anno. In altre parole, per ogni euro speso per R&S nell'Unione europea, 97 centesimi provengono dagli Stati membri e 3 da Bruxelles. Per fare un paragone, negli Stati Uniti il governo federale finanzia circa metà di tutta la ricerca effettuata nel paese e il 17% dello sviluppo.
Sarebbe molto più sensato attribuire all'Unione europa la responsabilità di progetti scientifici realmente paneuropei su una scala superiore a quella che perfino i paesi membri maggiori possono permettersi individualmente. In questo senso si può tracciare un parallelo logico con gli Stati Uniti e i loro programmi spaziali o i programmi di ricerca nel campo della sicurezza, tutti gestiti a livello federale. Se la difesa fosse gestita a livello di Unione europea sarebbe certamente molto più facile realizzare progetti di ricerca ambiziosi in campo aerospaziale o nel campo della difesa su scala europea.
Il trasferimento di determinate funzioni di governo dal livello nazionale al livello europeo non dovrebbe comportare alcun aumento netto della spesa pubblica nell'insieme dell'Unione europea e potrebbe anzi portare a una sua diminuzione netta a causa delle economie di scala. Prendendo l'esempio della difesa, a parità di spesa una singola organizzazione è certo più efficiente di 27 diverse. Inoltre, come ha dimostrato l'esperienza della NATO durante la guerra fredda, gli sforzi volti a coordinare apparati di difesa indipendenti hanno sempre prodotto risultati deludenti e molto parassitismo a spese dei fornitori più ricchi di questo bene pubblico.
A Nick Witney, ex capo dell'Agenzia europea per la difesa, si deve la più perspicace e persuasiva condanna della politica europea di sicurezza e difesa al suo stato attuale. "Dopo quasi due decenni dalla fine della guerra fredda" ha scritto "la maggior parte degli eserciti europei è ancora organizzata per una guerra totale al confine della Germania piuttosto che per il mantenimento della pace in Ciad o il sostegno alla sicurezza e allo sviluppo in Afghanistan [....]. Questo mancato ammodernamento significa che una buona parte dei 200 miliardi di euro che l'Europa spende ogni anno per la difesa va semplicemente sprecata [....]. I singoli Stati membri dell'Unione europea, comprese Francia e Gran Bretagna, hanno perso, e non riguadagneranno più, la capacità di finanziare da soli tutte le nuove capacità necessarie".
Se questa è la diagnosi, e se i diversi anni passati a cercare di migliorare il coordinamento e la cooperazione tra diverse organizzazioni di difesa nazionali non hanno fornito la cura, allora la creazione di un esercito europeo non sarebbe la cosa più logica da fare? Si noti che proprio perché la missione delle forze militari europee è cambiata tanto profondamente è molto più facile, in linea di principio, creare nuove forze armate da zero (uomini, attrezzature, dottrine e tutto il resto) piuttosto che perseverare nel futile tentativo di convertire le forze esistenti per nuove missioni cercando al tempo stesso di migliorare la cooperazione tra esse. Perché è possibile creare da zero una nuova valuta e una nuova Banca centrale e non un nuovo esercito?
La diplomazia, una voce relativamente poco costosa nei bilanci degli Stati nazione di oggi, costerebbe in ogni caso molto meno se fosse centralizzata a livello europeo. La Commissione europea ha già delegazioni in oltre cento capitali, e ai capi di queste delegazioni viene spesso accordato il rango di ambasciatore. Le ambasciate degli Stati membri sparse nel mondo che diverrebbero superflue sono dell'ordine delle migliaia. In termini puramente aritmetici, le sole ambasciate all'interno dell'Unione sono diverse centinaia (26x27=702). Alcune tra le più grandi ambasciate degli Stati membri si trovano in altri Stati membri, come quella d'Italia a Berlino.
Gli aiuti allo sviluppo e gli aiuti umanitari, settori in cui la Commissione europea è già fortemente impegnata (è ad esempio il primo donatore mondiale di aiuti umanitari), continuerebbero ad essere forniti, e non soltanto su scala ancora più ampia ma anche e per la prima volta in maniera coerente con gli obiettivi globali della politica estera dell'Unione. Oggi la mancanza di quest’ultima, cui si contrappone l'esistenza stessa di 27 distinte politiche estere, ha fatto sì che l'Unione europea sborsasse i propri aiuti umanitari sotto la bandiera ipocrita (soprattutto in situazioni di conflitto) della neutralità politica.
L'Unione europea è prima di tutto un'unione doganale. Le dogane, infatti, rappresentano una competenza esclusiva dell'Unione: gli Stati membri non svolgono più controlli alle frontiere interne dell'Unione ma hanno un confine esterno comune ed applicano lo stesso codice doganale, insieme ad altre norme concernenti ad esempio il controllo delle esportazioni di prodotti a duplice uso o l'attuazione di risoluzioni ONU in materia di embargo sulle armi.
Nonostante ciò, l'Unione continua a prevedere, anacronisticamente, 27 diverse organizzazioni doganali. Considerando anche la crescente importanza delle nuove missioni di sicurezza (antiproliferazione, antiterrorismo, sanità, sicurezza alimentare ecc.) rispetto alla tradizionale missione di riscossione fiscale, le dogane dell'Unione sono le prime candidate all'integrazione a livello centrale, secondo un modello che potrebbe seguire quello del Department of Homeland Security statunitense.
Esaminiamo ora la composizione dell'attuale bilancio dell'Unione europea e le funzioni di governo che noi proponiamo di attribuire all'Unione sulla base di una quantificazione approssimativa dei loro costi in percentuale rispetto al Pil europeo.
COMPOSIZIONE DEL BILANCIO DELL'UNIONE EUROPEA (% DEL PIL EUROPEO)
Sussidi all'agricoltura 0,43
Ridistribuzione sociale e regionale (fondi strutturali) 0,35
Politiche interne 0,10
Politiche esterne 0,06
Amministrazione 0,06
Totale 1,00
COSTI DELLE FUNZIONI DI GOVERNO DA ATTRIBUIRE ALL'UNIONE EUROPEA (% DEL PIL EUROPEO)
Difesa 1,0
Diplomazia (inclusi aiuti allo sviluppo e aiuti umanitari) 1,0
Ricerca e Sviluppo 1,0
Ridistribuzione sociale e regionale 0,7
Controllo alle frontiere 0,5
Reti trans-europee (TEN) 0,5
Amministrazione 0,3
Totale 5,0
Nel 2009 la spesa per la difesa degli Stati membri è stata compresa tra lo 0,6% del Pil per l'Irlanda e il 2,5% della Grecia. Le cifre relative ai grandi Stati membri sono state le seguenti: Francia 2,0%, Germania 1,5%, Italia 1,4%, Polonia 1,7%, Spagna 1,2%, Regno Unito 2,6%. Collettivamente, essi hanno speso l'1,7% del Pil europeo, ovvero 194 miliardi di euro.
Un'ipotetica spesa dell'UE per la difesa nell'ordine dell'1,0% del Pil può quindi sembrare modesta. Corrisponde tuttavia a quasi 130 miliardi di euro, che farebbero automaticamente delle forze armate dell'UE un'efficace organizzazione militare, seconda soltanto a quella degli Stati Uniti e con risorse da tre a cinque volte maggiori di quelle disponibili per potenze come Russia, Cina o Giappone. Nonostante ciò, ne conseguirebbero risparmi pari a 60-70 miliardi di euro rispetto alla situazione attuale, più di mezzo punto percentuale del Pil europeo.
La funzione diplomatica include gli aiuti allo sviluppo e gli aiuti umanitari. Esiste un impegno internazionale sottoscritto dai paesi ricchi all'Assemblea dell'ONU nel 1970 - e più recentemente confermato nell'ambito degli Obiettivi di sviluppo del millennio dell'ONU - volto a destinare lo 0,7% del proprio Pil allo sviluppo. Tre Stati membri dell'UE (Lussemburgo, Danimarca e Svezia) hanno superato tale obiettivo, mentre i paesi restanti sono molto al di sotto, tanto che perfino lo 0,5% del Pil dell'Unione, ovvero circa 63 miliardi di euro, costituirebbe un passo avanti rispetto alla cifra di 48,6 miliardi del 2008 (Commissione europea più Stati membri). L'altro mezzo punto percentuale servirebbe a finanziare gli aiuti umanitari e il funzionamento del servizio diplomatico dell'Unione.
In termini generali, l'1% del Pil europeo costituisce una cifra considerevole da destinare alle relazioni estere se paragonata, ad esempio, a quella degli Stati Uniti. Ma è anche in linea con l'autodefinizione dell'UE come "soft power" sulla scena mondiale e con i suoi impegni presenti e futuri.
In materia di Ricerca e Sviluppo, l'Europa spende attualmente poco più del 2% del Pil, percentuale quasi interamente proveniente da fonti, sia pubbliche che private, degli Stati membri. Un obiettivo fondamentale della strategia di Lisbona su crescita e occupazione - concordato dagli Stati membri nel 2000 e confermato con la Strategia Europa 2020 - è il raggiungimento del 3% del Pil. Presumiamo che il divario in questo caso debba essere colmato a livello federale.
L'ordine di grandezza previsto per la funzione redistributiva è doppio rispetto a quello attualmente previsto dai fondi strutturali, ma include un sistema di indennità di disoccupazione a livello europeo. La parte regionale tradizionale riguarderebbe invece i nuovi Stati membri e i paesi più ricchi solo nei casi di emergenza.
Le risorse a disposizione del Department of Homeland Security statunitense corrispondevano nel 2007 allo 0,3% circa del Pil degli Stati Uniti. Il territorio dell'Unione europea presenta confini più estesi e più problematici - un numero maggiore di porti e aeroporti - e più residenti da proteggere. Pertanto una cifra come lo 0,5% del Pil appare ragionevole. Sono ovviamente necessari studi dettagliati, ma dovrebbe essere corretto ipotizzare che attualmente 27 organizzazioni separate rappresentino per l'Europa un costo maggiore.
Nel nostro bilancio ipotetico alle Reti transeuropee sarebbe destinata una cifra molto superiore a quella prevista dal bilancio attuale dell'Unione. Tale nuovo livello di risorse andrebbe tuttavia non ad aggiungersi, ma a sostituire ciò che gli Stati membri spendono attualmente a livello nazionale per incrementare la connettività e l'interoperabilità delle reti europee di trasporti, energia e telecomunicazioni, ricevendo scarsi fondi e molto coordinamento da Bruxelles. Inoltre, questo è probabilmente il modo più efficace di stimolare l'economia dell'Unione, con una spesa a livello federale, in tempo di crisi.
Infine, le spese amministrative assorbirebbero una cifra di cinque volte superiore a quella attuale, ma sosterrebbero un bilancio globale molto più ampio, forze armate, un corpo diplomatico, vasti programmi federali di ricerca scientifica e un'organizzazione europea per il controllo alle frontiere.
Sul versante delle entrate, esistono diverse opzioni per finanziare un bilancio di questa portata. Quale che sia la scelta finale, tuttavia, è importante riaffermare il principio che un livello di governo federale dell'Unione, con tali funzioni da svolgere, deve avere il potere di tassare direttamente i cittadini europei, eliminando i trasferimenti dagli Stati membri che attualmente coprono l'87% del bilancio.
Sebbene la spesa pubblica presenti una tendenza a crescere in modo costante e a contrarsi raramente, riteniamo che la cifra indicativa del 5% del PIL dell'Europa proposta per le funzioni di governo assegnate in questa sede all'Unione sia realistica e, probabilmente, anche flessibile verso il basso: la coesione regionale dovrebbe essere limitata nel tempo e parimenti, si spera, gli aiuti allo sviluppo; le Reti transeuropee presentano dei limiti fisici; le forze armate, concepite esclusivamente per missioni di mantenimento della pace e di stabilizzazione, possono essere molto efficaci anche al di sotto del livello di spesa suggerito in questa sede, specialmente se l'altro braccio dell'Unione, il soft power, saprà ben funzionare.
D'altro canto, il bilancio comunitario qui proposto disporrebbe delle risorse sufficienti a stimolare l'economia europea, ove necessario, senza creare quei problemi di azione collettiva che si sono visti quando lo stimolo – nel caso della grande contrazione – è venuto dai programmi nazionali di spesa. La stabilizzazione macroeconomica verrebbe sostenuta anche dalla funzione di redistribuzione sociale e dalla tassazione: i paesi o le regioni in recessione importano meno, realizzano meno profitti e finiscono per contribuire in misura minore a un bilancio federale.
Infine, il trasferimento di intere funzioni di governo al livello federale significa che la spesa per queste funzioni andrà a sostituire e non ad aggiungersi a quella nazionale. In alcuni casi, come la difesa e il controllo delle frontiere, saranno possibili delle economie di scala. Inoltre, laddove si possono prevedere degli aumenti netti, come nella ricerca scientifica, questi corrispondono ad una scelta politica adottata da sempre dall'Unione ma mai attuata.
(*) Emma Bonino, radicale, già commissario europeo, è vicepresidente del Senato della Repubblica italiana; Marco De Andreis, già funzionario della Commissione europea, è Senior Policy Fellow dello European Council on Foreign Relations
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