di Pietro Ratto, da “Cronache Laiche”, 31-05-2013
Da Porta Pia a oggi, centocinquant’anni di finanziamenti profusi dall’Italia a Città del Vaticano. Dei quali congrua, otto per mille e ora di religione sono solo i più noti.
Il 31 maggio 1871 il neonato Stato italiano approvava la Legge delle Guarentigie, il cui art. 4 riconosceva al Pontefice un contributo annuale di 3 milioni e 225 mila lire che, in pratica, andava a coprire la spesa che ogni anno l’ex Stato Pontificio sosteneva per mantenere la corte papale. Lo sdegnoso rifiuto con cui tale legge fu accolta da Papa Mastai Ferretti – riassunto nel testo dell’enciclica Ubi Nos e poi nella celebre formula Non expedit - è cosa ben nota a tutti.
La tensione tra Stato italiano e Chiesa, seppur attenuatasi nel tempo, fu superata solo col fascismo. Fu infatti il Duce, l’11 febbraio 1929, il primo ad ottenere una regolamentazione dei rapporti tra i due Stati attraverso i famosi Patti Lateranensi. Costituiti da tre accordi ben precisi (un Trattato internazionale che di fatto sanciva la nascita del nuovo Stato della Città del Vaticano sulla scena internazionale, un Concordato che ne stabiliva i rapporti futuri con lo Stato Italiano ed una Convenzione finanziaria che affrontava il problema di queste relazioni dal punto di vista prettamente economico), questi accordi servivano alla Chiesa per chiudere i conti con la nostra nazione ed al Duce per ingraziarsi la maggioritaria componente cattolica del Paese, in vista dell’imminente Plebiscito del mese successivo, con cui egli avrebbe dimostrato al mondo intero come il popolo fosse tutto dalla sua parte. Mussolini faticò non poco per convincere i suoi colleghi circa l’opportunità di firmare questi accordi e, soprattutto, di esporre la casse dello Stato ad un vero e proprio salasso.
L’art. 1 della Convenzione, infatti, stabiliva che l’Italia avrebbe corrisposto, a titolo di risarcimento per tutte le annualità stabilite dalla Legge del 1871 ma mai effettivamente riscosse dalla Santa Sede, 750 milioni di lire in contanti più un ulteriore miliardo in Titoli di Stato al tasso di interesse del 5% con cedola al 30 giugno di ogni anno. La cifra era davvero enorme, difficile da giustificare anche solo per il fatto che il motivo per cui il Vaticano non aveva ricevuto fino a quel momento il rimborso previsto quasi sessant’anni prima come guarentigia, andava cercato unicamente nel rifiuto dei Papi. Inoltre, a conti fatti, il “debito” accumulato nei confronti del Vaticano – a causa della sua prescrizione via via accumulatasi – corrispondeva ormai, più o meno, ad un centesimo della somma stabilita dalla Convenzione. Già, una cifra enorme quella riconosciuta dall’Italia. Al giorno d’oggi equivarrebbe a circa un miliardo e mezzo di euro, per giunta in un’epoca in cui un impiegato guadagnava 200-300 lire al mese. Particolare, questo, considerando il quale la cifra pattuita potrebbe corrispondere a cinque/sei miliardi di euro attuali.
Alla Camera il Duce minimizzò: «Il Governo, mediante un’operazione di Tesoro, si farà cedere i titoli stessi dalla Cassa depositi e prestiti, che ne ha dei mucchi e che li preleverà dalle proprie disponibilità patrimoniali senza menomamente toccare né le riserve, né il patrimonio dei diversi istituti da essa amministrati». In realtà la Cassa Depositi e Prestiti emise, sì, uno speciale certificato da cui progressivamente venivano detratti i valori nominali dei titoli pian piano restituiti dal Governo; ma Mussolini non riuscì a restituire alla Cassa più di 210 milioni di lire. I restanti 790 finirono nel Gran Libro del Debito Pubblico sotto la voce Prestito del Littorio e, seppur regolarmente incassati dalla Santa Sede, mai più restituiti alla Cassa.
E le regalie alla Santa Sede non finivano qui. Con l’art.6 del Trattato il Duce si impegnava a fornire al Vaticano un’adeguata dotazione di acqua in proprietà. Impegno che i Papi avrebbero preso molto sul serio, dato che dalla sua nascita ad oggi la Città del Vaticano non ha mai pagato la bolletta dell’acqua e l’ACEA, società che dal 1937 gestisce l’acquedotto romano, si è trovata a vantare un credito di milioni e milioni nei confronti dello Stato Pontificio. Pur realizzando consumi idrici annuali da favola (qualcosa come 5 milioni di metri cubi – ma il dato è in crescita di anno in anno – che, ripartiti sui circa ottocento abitanti del mini-Stato costituiscono un consumo pro-capite che è quarantuno volte quello italiano), il Vaticano lascia ancora oggi l’Italia nell’imbarazzo di dover coprire periodicamente il proprio consumo d’acqua. Nel ’99 il governo D’Alema ha sborsato 44 miliardi di lire per coprire il buco. Il versamento successivo all’ACEA, pari a 25 milioni di euro, è stato effettuato dal governo Berlusconi nel 2005.
Ma non basta. Fino al 2005 lo Stato della Chiesa non aveva mai provveduto a dotarsi nemmeno di un impianto di depurazione, scaricando direttamente nel Tevere. Così, contestualmente, Berlusconi ha provveduto zelantemente a far costruire il necessario impianto con ulteriori 4 milioni di euro. Soldi, naturalmente, mai restituiti dalla Città del Vaticano e a cui, dal 2005, si sommano le spese annuali di depurazione, anch’esse spudoratamente lasciate alle finanze italiane.
L’art. 6 del Trattato del ’29 prevedeva inoltre la costruzione, naturalmente sempre a spese dell’Italia, di una stazione ferroviaria vaticana e la realizzazione di tutti i collegamenti telefonici e telegrafici di Santa Romana Chiesa con gli altri Stati. L’art. 30 riconfermava poi il pagamento della congrua, lo stipendio riconosciuto a tutti gli ecclesiastici dalla Legge 3036 del 1866, che aveva istituito appositamente un Fondo per il Culto proprio in risarcimento di tutti i beni ecclesiastici via via confiscati dall’Italia al Papa. Risarcimento, come abbiamo visto, già ampiamente coperto dalla somma contestualmente prevista dalla Convenzione.
Quando il fascismo cadde, la nuova Repubblica italiana sentì il bisogno di riconfermare i Patti stipulati da quello stesso Mussolini contro cui era nata, con l’approvazione di tutti gli schieramenti politici, incluso il PCI di Togliatti. La riconferma dei Patti prevista dall’art.7 della Costituzione aveva uno scopo ben preciso. Blindare definitivamente gli accordi con la Chiesa in modo da evitare qualsiasi rischio di abrogazione per iniziativa popolare. Come si sa, infatti, nessun referendum può venire accolto per abrogare un articolo della nostra Costituzione. E in effetti le cose rimasero come ai tempi del Duce fino al 1984, quando Craxi, premier dall’anno precedente, convocò i rappresentanti della Santa Sede per rinegoziare i Patti. Tra le varie modifiche, dal punto di vista economico spiccava la sostituzione della congrua con il nuovo meccanismo dell’8 per mille elaborato da Giulio Tremonti. Tale dispositivo prevede che ogni contribuente possa devolvere l’8 per mille del proprio gettito fiscale alla Chiesa Cattolica – e negli anni successivi, grazie a successivi accordi, anche all’Assemblea di Dio, a Metodisti e Valdesi, alla Chiesa Luterana ed alle Comunità ebraiche, anche se importanti religioni come l’islamismo restano assolutamente fuori dalla rosa di quelle “finanziabili”, e Buddisti e Testimoni di Geova sono in lista d’attesa dal 2000 – oppure allo Stato italiano. Il contribuente può anche non esprimere alcuna scelta, ma in questo caso il suo 8 per mille verrà comunque ripartito tra le varie confessioni religiose previste, secondo la percentuale di preferenze accordate da chi ha invece effettuato una scelta. In sintesi, per quanto solo il 42% degli italiani che pagano le tasse esprima una preferenza nei confronti di una certa chiesa, dato che l’89% di questi dichiara la propria volontà di devolvere il proprio 8 per mille alla chiesa cattolica, l’89% dell’8 per mille dell’intero gettito nazionale finisce in Vaticano. Questo meccanismo perverso, da molti ritenuto una truffa, lascerebbe se non altro fuori da questa ripartizione ben poco imparziale l’8 per mille di chi ha dichiarato espressamente la propria volontà di devolverlo allo Stato. Ma nel 2009 è trapelato che anche questa porzione di gettito verrebbe spesa per la manutenzione degli edifici di culto cattolico.
La revisione del Concordato prevedeva che l’insegnamento della Religione Cattolica passasse da obbligatorio a facoltativo, istituendo l’ora alternativa a quella di religione per tutti gli studenti interessati. Ma a parte il fatto che tale opzione fatica ancora oggi ad essere attivata nelle scuole italiane proprio per evitare di far perdere il lavoro agli insegnanti IRC (Insegnamento della Religione Cattolica), va sottolineato che i circa ventimila che attualmente insegnano Religione nelle scuole, selezionati e formati dalla Chiesa, vengono comunque assunti e pagati dallo Stato italiano. Dal 2010 il gettito 8 per mille che annualmente finisce nelle casse del Vaticano ha superato la soglia del miliardo di euro. In pratica la Chiesa Cattolica percepisce ogni anno quasi quanto stabilito dalla Convenzione del ’29 per coprire i precedenti sessant’anni di cosiddetto “debito”. In che misura questi soldi coprono le spese del Vaticano? Nella tabella sottostante mostriamo l’effettivo costo degli stipendi di tutti i vescovi e cardinali del mondo (mantenuti dallo Stato italiano) e di quello dei sacerdoti residenti in Italia.
Il gettito complessivo nazionale dell’8 per mille sembra dunque coprire in gran parte le spese di mantenimento del clero, mentre a quelle da devolvere ad esempio all’assistenza di malati, ai poveri e al Terzo Mondo, richiamate ogni anno dalla propaganda vaticana nelle settimane precedenti la data di scadenza di presentazione della Dichiarazione dei redditi, andrebbe appena il 27% del ricavato totale. In realtà, però, questo miliardo non è che una piccola percentuale dei soldi pubblici che finiscono nelle casse del Vaticano. Ecco un provvisorio elenco delle effettive spese sostenute annualmente dall’Italia in favore della Città del Vaticano (relativo all’anno 2010), tralasciando i vari finanziamenti pubblici a scuole ed enti religiosi, che secondo l’Uaar [3] porterebbero l’esborso statale attuale a superare quota 6 miliardi e 277 milioni.
E’ appena il caso di far notare che uno Stato realmente laico devolverebbe questi soldi ai propri cittadini disoccupati o colpiti da calamità naturali, come nel caso del terremoto de L’Aquila, ad esempio. Una catastrofe i cui danni – stimati in circa 2,5 miliardi di euro – potrebbero venir prontamente risarciti con un terzo di quanto lo Stato italiano elargisce alla Chiesa in un solo anno.
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