di Eleonora Mongelli, da “Libertiamo.it”, 08-01-2013
Sono trascorsi quasi due anni dal brutale assassinio di David Kato, l’insegnante, cofondatore dello SMUG (Sexual Minorities Uganda), che aveva scelto di dedicare la sua vita alla lotta contro l’omofobia nel suo Paese, l’Uganda, dove l’omosessualità costituisce reato, nonché un male da debellare.
David, lo ricorderemo, era tra le cento persone, i cui nomi, foto ed indirizzi, qualche mese prima della sua morte, erano apparsi sulla rivista scandalistica locale Rolling Stone (che non ha nulla a che vedere con l’omonima rivista musicale americana), sotto il titolo “Impiccateli”. Aveva portato la sua testimonianza in Italia in occasione del IV Congresso dell’associazione radicale Certi Diritti, grazie anche al notevole impegno di Non c’è Pace Senza Giustizia.
Gli episodi di violenza a sfondo omofobico si erano intensificati in Uganda in seguito alla presentazione in parlamento del disegno di legge conosciuto come “Kill the gays bill”, il quale condannava alla pena di morte i colpevoli di “omosessualità aggravata”, ovvero nel caso in cui il colpevole avesse reiterato il “crimine” o se il rapporto fosse stato consumato sotto effetto di alcol o droghe, con un minore o un portatore di handicap, o qualora il “criminale” fosse HIV positivo. Inoltre, sempre lo stesso disegno di legge prevedeva l’ergastolo per chi veniva accusato di aver anche solo toccato una persona dello stesso sesso con l’intenzione di commettere un atto di omosessualità.
L’indignazione della società civile per la morte di David Kato e per alcune dichiarazioni agghiaccianti che hanno seguito l’episodio, tra cui quella del Ministro ugandese dell’Etica e dell’Integrità, James Nsaba Buturo, il quale si sarebbe rivolto ai cittadini omosessuali con la frase “scordatevi i diritti umani”, feceesplodere una mobilitazione internazionale che portò la sospensione del dibattito con il provvisorio ritiro del disegno di legge dalle aule.
È evidente che si è trattato di una manovra politica messa in piedi con il solo scopo di ripristinare l’immagine del Paese, in un momento in cui gli aiuti internazionali erano già a rischio per via dello scandalo legato alla corruzione dilagante. Infatti, solo due mesi fa, il progetto di legge che si proponeva di inasprire la pena per un reato che oggi già prevede una condanna fino a 14 anni di carcere, viene ripresentato, con qualche modifica, dallo stesso parlamentare David Bahati.
Si riaccende la protesta internazionale contro il “nuovo” disegno di legge e contro la Presidentessa del Parlamento, Rebecca Kadaga, che ha cercato invano di far approvare la legge entro la fine dell’anno, dichiarando che sarebbe stato un regalo di Natale per tutti i cittadini ugandesi che chiedono di essere tutelati dalla minaccia rappresentata dagli omosessuali nella società. Anche questa volta, i promotori della legge vergogna hanno dovuto fare i conti con le minacce di sospensione di aiuti in favore di Kampala, provenienti da diversi paesi, tra cui USA, Gran Bretagna, Francia, Svezia, Germania e Canada. L’Uganda, che, per la sua struttura economico-politica, per il 25% dipende ancora dagli aiuti internazionali, ha dovuto nuovamente, con enorme disappunto dei suoi promotori, rimettere in cantiere il disegno di legge, perridiscuterne una versione rivisitata, che eliminerebbe la pena di morte, probabilmente a febbraio.
Il fuoco omofobico, del resto, è sempre acceso in Uganda. Le organizzazioni che difendono i diritti degli omosessuali continuano a denunciare atti di violenza e soprusi su quelle persone che ancora oggi, dopo la morte di David Kato, non accettano di vivere in clandestinità solo perché la loro società, per troppo tempo governata da poteri omofobi, considera fuori legge il loro orientamento sessuale.
Fatto sta che, se la comunità internazionale può ritenersi soddisfatta per essere riuscita a far cadere, forse, la proposta di condanna a morte per i colpevoli del crimine di omosessualità, c’è un’altra “pena di morte” con cui devono ancora fare i conti gli omosessuali in Uganda, quella a cui la società in cui vivono li condanna.
Le lunghe e costanti pressioni, soprattutto delle Chiese Cristiane locali, tra cui la più attiva è quella Anglicana, sulla popolazione, hanno contribuito a formare quel 96% di cittadini ugandesi che credono fermamente che l’omosessualità sia un male da estirpare. Quell’omofobia istituzionalizzata, contro cui si batteva David Kato, esiste ancora ed è oggi ancora più crudele. Basti pensare che sono trentasette i Paesi africani che considerano reato l’omosessualità, un reato punito con pene severe, lunghe detenzioni che, nel contesto delle carceri africane, poco si differenziano da una pena capitale.
A questo punto, c’è da chiedersi con onestà se ci si può accontentare del “regalo” del Governo ugandeseche, anche se accetta di non inasprire le pene verso gli omosessuali, non condanna però le violente campagne di “caccia al gay” messe in atto dalla popolazione.
Certo, con l’ingiustizia e la violazione dei principi di libertà si impara a convivere ed esempi di questa triste realtà ce ne sarebbero troppi, anche nel nostro democratico Paese, dove essere omosessuali non è reato, ma comunque non ci si scandalizza troppo davanti a parole come quelle pronunciate solo un mese fa da Benedetto XVI, secondo cui i matrimoni omosessuali danneggerebbero la società e costituirebbero una minaccia per la giustizia e la pace nel mondo.
Abituarsi ad un contesto sociale in cui l’essere umano è privato delle sue libertà fondamentali non è però accettabile da chi si vanta di seguire un pensiero figlio della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Il lavoro che ci aspetta per riconoscere e tutelare i diritti degli omosessuali sul piano delle varie giurisdizioni è enorme, ma è sicuramente maggiore quello da farsi sul piano sociale, nel momento in cui la libertà di vivere secondo il proprio orientamento sessuale, anche lì dove non è un reato per lo stato, lo è purtroppo ancora spesso per la società.
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