L’Undicesimo congresso di Radicali avrà luogo a Roma, all’hotel Ergife, dal 1 al 4 novembre. Come “Notizie Radicali” abbiamo pensato che poteva essere utile offrire uno spazio di riflessione, confronto e dibattito; e per questo abbiamo chiesto a un certo numero di compagne e compagni di rispondere alla domanda “aperta”: che cosa mi aspetto dal Congresso”, nel senso di: cosa suggerisco, cosa propongo, cosa penso debba essere fatto. E’ evidente che, al di là dell’invito che fatto per poter avviare la riflessione, il dibattito è aperto a chiunque vorrà intervenire. Ieri abbiamo pubblicato i contributi di Romano Scozzafava e Maurizio Bolognetti. Oggi è la volta di Claudio M.Radaelli.
Il direttore di questo giornale mi ha chiesto un contributo su cosa mi aspetto dal Congresso annuale di Radicali Italiani 2012. La mia prima risposta è istintiva: più che tormentarmi su cosa il Congresso dovrebbe fare per me, mi chiedo cosa possa fare un iscritto come me, partecipando. Intanto dico subito che la partecipazione ai nostri congressi impegna ma anche diverte e libera energie individuali e collettive, non essendo una partecipazione per delegati, capi e capetti con interventi programmati secondo la classica piramide della gerarchia partitica. Si partecipa per davvero, ci si diverte e commuove – quello che i giornali hanno spesso tradotto con la formula che gli eventi Radicali sono degli… happenings (il mio dizionario dice solo che gli happenings sono null’altro che something that takes place!).
Sembra scontato, ma non lo è. Me ne accorgo in questi giorni spiegando cosa sia un nostro congresso agli amici dei Greens inglesi, dove invece è il solo delegato di Exeter a partecipare alle assemblee decisionali nazionali del partito. E dove ovviamente se provate a iscrivervi, la sola questione filtro, quella che può bloccare la richiesta d’iscrizione, è quella del “dichiaro di non essere iscritto ad alcun altro partito politico” – una specie di Credo in un solo Dio…!
Ma intanto sono qui, e guardo la tessera di RI 2012 con apprensione: davanti ai fucili che fanno fuoco – mi riferisco all’immagine della tessera tratta da Goya, Le Fuciliazioni del Tre Maggio – ci siamo proprio noi. Nei prossimi due anni ci aspettano appuntamenti che possono anche cancellare la nostra rappresentanza parlamentare sia in Italia che in Europa. Non sarebbe la prima volta che i Radicali si troverebbero fuori da assemblee parlamentari pur conservando ampi margini di efficacia, però rimanere fuori sia da Roma (2013) che da Strasburgo (2014) porrebbe diversi problemi. Ecco allora che mi aspetto dal Congresso una discussione su come affrontare il primo impegno nazionale anche nel cono d’ombra dell’impegno europeo che si avvicina. Si tratta di parlare di alleanze, certo. Ma anche di persone e progetti adeguati.
Ma siccome il Congresso è organizzato in modo tale da avere diversi volani, e non tutti legati alla congiuntura politica, sono sicuro che avremo modo di parlare anche di una questione che investe il nostro modo di essere in politica e di fare politica. Molti osservatori e dirigenti del nostro movimento e del Partito hanno notato che mai come negli ultimi dieci mesi le questioni davvero di fondo dell’essere Radicali in politica, soprattutto politica italiana, sono venute al pettine. Hanno riempito le prime pagine dei giornali. Hanno dato scossoni impensabili a personaggi e giunte che parevano incrollabili. Hanno aperto nuove domande di una qualche forma-partito diversa da quella classica, gerarchica e controllata da un forte centro nazionale che gradualmente occupa e soffoca lo Stato e il protagonismo locale. Eppure facciamo fatica a raccogliere attenzione e consenso in misura adeguata.
Questo ci rimanda a un dato storico dei Radicali in politica. Da sempre i Radicali sono stati un formidabile imprenditore politico collettivo. Sappiamo che un imprenditore politico annoda tre stringhe che di solito viaggiano separate: sa cogliere problemi sociali che sono profondi ma non necessariamente appaiono sul radar del sistema politico; li connette a un programma e ad una soluzione pragmatica, possibile e fattibile; insegue il ciclo della politica (elezioni, svolte epocali, referendum) per imporgli attenzione al problema e alla soluzione. La vicenda-madre di tutte le battaglie Radicali, quella del divorzio, esprime bene il succo del triangolo problema-soluzione-politica.
Da sempre le assemblee congressuali Radicali funzionano come intellettuali collettivi che scovano quel tal problema e lo combinano con una soluzione. Un tratto saliente delle nostre ‘soluzioni’ è che sono dei veri programmi costruttivi nel senso di Gandhi. Per Gandhi un constructive programme doveva impegnare i militanti giorno per giorno, presentando certo una soluzione pragmatica e realistica, ma anche aiutando i militanti a coinvolgere la gente giorno per giorno, a fare l’alternativa qui e subito, nel quotidiano. Per anni il nostro constructive programme è stato quello dei tavoli per le strade, con la raccolta di firme. In tal modo siamo riusciti a parlare ai cittadini, direttamente, uno per uno.
Ora mi pare che sia sul fronte dell’analisi dei problemi sociali che su quello delle soluzioni i Radicali siano messi bene anche oggi. Anche oggi la battaglia-madre di tutte le iniziative attuali, quella dell’amnistia per la Repubblica, riguarda tutti i cittadini, dato che è una lotta per la giustizia, non solo per le carceri. Un grande problema collettivo, dunque, che sta sempre fuori dal radar della politica partitocratica. Anche qui troviamo un constructive programme che si snoda attraverso contatti umani tra individui esistenti (e non categorie astratte), per esempio nelle visite alle carceri dei nostri parlamentari e di Marco Pannella. Tuttavia, la politica è scappata, ancora più lontana e inafferrabile di quanto lo sia stata in passato. Manca il terzo elemento del triangolo, la politica.
Come si agganciano problemi e constructive programme al ciclo, alle attenzioni, anche alle immagini mediatiche della politica? Di sicuro la nostra analisi, quella del documento sulla Peste Italiana, ci ha portato in posizione di totale alternativa rispetto alla politica che conosciamo in Italia. Alternativa e alterità di cui siamo fieri, anche quando possiamo far osservare che tutti sono coinvolti in tutte le vicende di malaffare politico “tranne i Radicali”. Ma che ovviamente “gli altri” ci fanno pagare salatamente. Di sicuro questa distanza viene amplificata e distorta tramite un uso partigiano, illegale e autoritario dei media, soprattutto quelli di proprietà pubblica che dovrebbero garantire un servizio ai cittadini e un’educazione civica diffusa. Questo della collusione fra politica e RAI in funzione anti-Radicale ma prima di tutto anti-democratica resta un dato fondamentale. Eppure tutti vediamo come l’informazione fuori dai canali televisivi non sia più scarsa come in passato. Se esiste una merce che ora circola in dosi assai più massicce e meno care che in passato, questa è proprio l’informazione. Grazie a queste nuove proprietà dell’informazione sono nati movimenti che hanno agganciato problemi e politica – anche se quasi sempre senza avere il terzo elemento dell’imprenditoria politica collettiva vincente, quello del constructive programme. Ci sono casi in Islanda, con il movimento di Birgitta Jonsdottir, come in Germania e – in visione farsesca e con forti accenti populisti – anche in Italia ovviamente.
Ecco, forse vale la pena discutere su questo elemento di come agganciare la politica e metterci la sella dei problemi collettivi e del nostro programma di soluzioni pragmatiche. In altri termini, la nostra identità deve restare forte, ma aperta all’apprendimento e allo studio sistematico di come altri soggetti, in altre situazioni ovviamente, hanno cercato di agganciare la politica. Forse il referendum rimane ancora la strada migliore per agganciare il ciclo della politica. Ha il grande merito di riportarci a fare constructive programme nelle strade. Forse servono altri strumenti, come le iniziative di legge popolare europea (European Citizens Initiatives), che ci farebbero farecostruzione di reti con altri soggetti e formazioni associative in tutta Europa, oltre che in Italia, su temi come il fine-vita, le droghe, la riproduzione sessuale assistita.
Forse dobbiamo spostarci dalla ‘legge’ come fine ultimo dei nostri agganci al mondo della politica. Mi spiego. Fino ad oggi, un modo per noi classico, anche se non il solo, di unire problemi-soluzioni-politica è stato quello di chiedere una nuova legge (per gli obiettori di coscienza al servizio militare, per l’eutanasia, e via dicendo) o di abbattere leggi esistenti. Il futuro potrebbe richiedere di guardare più da vicino non tanto alle leggi, ma a come sono applicate o non applicate, alla pubblica amministrazione, al management pubblico e alla governance. Per esempio, la battaglia che abbiamo iniziato sul Freedom of Information Act va molto più avanti della questione della ‘legge’. Le questioni dell’architettura dell’Eurozona sono anch’esse diverse rispetto a quelle che abbiamo visto in passato, e il nostro contributo in questa direzione ci permette di legare insieme attività nazionale ed europea, come illustrato dai tanti interventi di Emma Bonino sulle questioni di governance. Altri fronti di iniziativa potrebbero aprirsi non tanto sulle leggi in quanto tali, ma su come vengono preparate dal governo: con quale consultazione, con quale tipo di analisi economica, sulla base di quali criteri decisionali. Qui siamo di fronte a diversi governi che dal 1999 si sono dati delle regole (per l’analisi di impatto delle nuove iniziative proposte dai vari Ministri) senza averle mai attuate – una questione sulla quale l’iniziativa parlamentare Radicale nella prossima legislatura potrebbe benissimo ritrovare punti di forza, in linea con la nostra identità politica che ha sempre affermato la rule of law, soprattutto per chi governa. Ma per fare questo serviranno (oltre a tutto il resto!) anche dei parlamentari eletti nel 2013: e torniamo quindi alle questioni delle alleanze e del breve periodo, al fatto di non sapere con che legge elettorale andremo a votare, e con la tentazione di dire che in queste condizioni anti-democratiche (regole elettorali ancora ‘nascoste’, comportamento illegale dei media, incertezza sul possibile abbinamento del voto regionale con quello nazionale in una o due regioni-chiave, e via discorrendo) non si può davvero far finta di niente ed entrare in campagna elettorale come nulla fosse. Cercando di non farsi fucilare.
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