da “Tempi”, 11-08-2012
Alessandro Jelmoni è attualmente detenuto nel carcere di San Vittore. Fino a poche settimane fa, la sua cella era vicina a quella di Antonio Simone. Ci ha inviato questa lettera, che di seguito riproduciamo.
Rileggendo alcuni articoli che il Corriere della Sera ha pubblicato nel mese di luglio, ci siamo resi conto che alcuni di essi sono come pezzi di un unico puzzle: proviamo a metterli assieme.
Il 3 luglio Galli della Loggia pubblica un bellissimo ed inquietante articolo sullo “stato d’animo di un testimone”, l’ex-ministro Mancino, per mettere nero su bianco una preoccupazione diffusa: “profonde distorsioni che troppo spesso, quasi fisiologicamente, caratterizzano l’operato delle procure della Repubblica”. Se Mancino, ex-ministro ed ex-vicepresidente del Csm, fine conoscitore dei meccanismi della giustizia, ha paura di diventare una pedina essenziale nella costruzione di un teorema da parte di una procura, con tutto quanto ciò possa comportare, a maggior ragione lo deve temere ognuno di noi. Ovvero: se chi conosce bene come funziona la macchina della giustizia (in particolare quella inquirente) la teme, vuol dire che quella macchina bene non va. Semplice, come bere un bicchier d’acqua, ma letto sul Corriere, fa un certo effetto.
Il 25 luglio sull’argomento “Verità e teoremi”, sempre legato alla vicenda “Trattativa Stato-Mafia”, torna Polito. Non pare del tutto condivisibile l’opinione secondo la quale “va a onore di un sistema giudiziario in cui l’Accusa è totalmente indipendente, talvolta perfino dal capo della procura, il fatto che in Italia qualsiasi Pm di qualsiasi sede possa indagare chiunque”, e, in effetti, qualche perplessità sul funzionamento dell’Accusa anche Polito deve nutrirla, se afferma che: “[Gli inquirenti]… si sono bevuti per anni la versione di un finto pentito mandando ingiustamente numerose persone all’ergastolo…” e che in vent’anni “… non sono riusciti nemmeno a individuare gli assassini materiali di Borsellino”. La stilettata all’Accusa arriva di seguito: “va bene indagar sul terzo e il quarto livello, ma anche il primo livello ha una sua importanza”. Sono frasi che si commentano da sole ed il principio sottostante è chiarissimo: il funzionamento della magistratura inquirente presta il fianco a numerose critiche.
Il problema esiste: se ne sono accorti anche al Corriere.
Nei 22 giorni che intercorrono tra i due articoli esplode il caso “conflitto di attribuzione”, a cui viene dato ampio risalto. L’azione del Presidente della Repubblica “cristallizza” di fatto il problema e consente di trarre un principio generale: l’azione delle Procure può andare (e nel caso di specie, va) ben al di là di quanto legittimamente potrebbe. Come altri giornali, il Corriere riporta le durissime frasi del Capo dello Stato, che denuncia anche una campagna di “irresponsabili illazioni”. Con molto tatto, quasi con garbo, dalle pagine del corriere si lascia intendere che a volte il binomio “Procure-giornali” genera mostri, come il kantiano “sonno della ragione” Se la ragione dorme, l’azione “politica” di alcune procure è ben sveglia e lotta assieme ad alcuni organi di stampa. Il rapporto tra procure e media è storicamente a geometria variabile: in funzione del “target” dell’indagine, esiste sempre il giornale su cui veicolare l’informazione. E così è in questo caso, solo che l’aggressione subita dal Quirinale è tale che il supporto alla Procura di Palermo è del tutto minoritario e riconducibile al solo “fatto quotidiano”. Il Corriere, invece, mette in evidenza la levata di scudi a favore del Quirinale delle più alte cariche dello Stato e del Ministro della Giustizia.
Il 27 luglio, a seguito della drammatica e improvvisa scomparsa di Loris D’Ambrosio, l’attenzione viene spostata dalla causa all’affetto: la violenta campagna mediatica di cui è stato oggetto, effetto delle intercettazioni e della “gestione” delle stesse da parte della Procura di Palermo, diventa “il problema”, un po’ come quando, indicando la luna a qualcuno, ci si accorge che l’interlocutore guarda il dito e non la luna. Se il 28 luglio Ainis “chiede” silenzio e rispetto per D’Ambrosio, il 29 luglio Giuliano Amato afferma che “i dubbi insensati offendono la verità” e che “la dignità della persona è il valore di fondo del nostro sistema costituzionale ed è la vera premessa di una convivenza civile e democratica”. Come dire: ristabilire la verità è un dovere perché il rispetto della dignità umana non è un’opzione. Restituire l’onore della verità a D’Ambrosio è indice di civiltà: il silenzio, dopo l’offesa, è solo complice e dolorosa omertà.
Già… la dignità della persona… il caso D’Ambrosio, anche per la sua tragica fine, è eclatante, ma dalle pagine del Corriere, su temi diversi di cui lo stesso D’Ambrosio si è occupato, l’argomento è stato in qualche modo già toccato. Il 3 luglio si dà un piccolo spazio al commento di Don Davanzo, direttore della caritas ambrosiana, che facendo riferimento alle condizioni delle carceri italiane chiede l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento. A tale richiesta unisce la propria voce Gian Antonio Stella che il 13 luglio porta come esempi “Diaz”, “Bolzaneto” ed il caso “Aldovrandi”. Alla situazione carceraria non fa riferimento, ma in precedenza il Corriere ha dato risalto al fatto che lo stesso Presidente della Repubblica. Ha espresso profonda preoccupazione per la situazione delle carceri.
Già… la dignità della persona… non bisognerebbe ricordarsene solo quando accadono episodi come quello tragico di D’Ambrosio, ma si dovrebbe fare anche per ognuno dei suicidi occorsi in carcere (decine negli ultimi mesi), o, più semplicemente, pensando ai molti detenuti costretti in condizioni pesantemente illegali.
Il 23 luglio Dacia Maraini si occupa del tema di “Tortura e detenzione” senza se e senza ma: spesso le condizioni di carcerazione sono inumane e sono una vera e propria tortura. È arrivato il momento di cambiare, per non calpestare la dignità della persona, m l’unico politico che si impegna in questa battaglia di civiltà è Marco Pannella, assieme ai radicali. Quello della Maraini è un vero e proprio appello, al momento raccolto da pochi, eppure si occupa della stessa dignità della persona di cui ha parlato anche Giuliano Amato, sempre che si considerino persone i detenuti, visto che in molti casi sono trattati peggio degli animali.
Il 30 luglio, anche per onorare la memoria di D’Ambrosio, viene dato ampio spazio alla lettera di risposta del Presidente Napolitano all’appello di oltre cento costituzionalisti e alla lettera al direttore del Prof. Pugiotto, primo firmatario dell’appello. L’emergenza carceraria, quale effetto della grave inefficienza della giustizia, è l’argomento principe dello scambio di corrispondenza, di cui 2 punti meritano un approfondimento. Il presidente afferma che l’ampio accordo politico necessario ad amnistia ed indulto non è attualmente ravvisabile: eppure si tratta di restituire legalità ad una situazione di dominio pubblico; l’attuale maggioranza, che sostiene il governo tecnico, è la più ampia delle ultime legislature e siamo certi che il Parlamento, se opportunamente investito del problema, saprà aprire rapidamente per ridare dignità al paese e legalità alla amministrazione penitenziaria. Il secondo punto è il riferimento alla “pausa agostana”; i molti suicidi, tra detenuti e guardie, esigono un rispetto diverso: durante la “pausa agostana” quanti suicidi ci saranno? Uno, due, tre, di più, nessuno? Perché quando si parla di carceri e giustizia gli emuli di Ponzio Pilato si moltiplicano? I suicidi in carcere non pesano proprio sulle spalle di nessuno o è un peso che, suddiviso tra molti, diventa irrilevante per ognuno, secondo la teoria che la condivisone della responsabilità porta di fatto alla eliminazione della stessa?
Il puzzle è completo: proviamo a fare ordine.
Le procure operano spesso in maniera distorta, di fatto abusando dei poteri di indagine loro contriti; media e giornali contribuiscono a delegittimare (o a denigrare) indagati ed altri soggetti coinvolti nell’indagine; alcune indagini, dall’esito incerto, rispondono ad “esigenze” politiche e di delegittimazione mediatica, che alla ricerca della verità giudiziaria; le condizioni di carcerazioni (illegali), che in molte carceri sono una vera e propria tortura, contribuiscono ad aumentare la pressione psicologica sugli indagati, spesso ristretti in carcere per esigenze cautelati molto discutibili. La soluzione c’è, si chiama amnistia, ma manca il coraggio “politico” di promuoverla nelle sedi istituzionalmente preposte.
I pezzi del puzzle li ha forniti il Corriere, noi ci siamo limitati a metterli in ordine e a chiudere il sillogismo sottostante, in nome di una dignità della persona di cui uno Stato civile e democratico si dovrebbe occupare non solamente quando chi è aggredito è consulente giuridico del Quirinale.
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