
L’amministratore unico di una società veniva incriminato per associazione a delinquere di stampo mafioso per la quale era stato arrestato, e poi assolto. Per i 10 giorni di carcere patiti, l’interessato intenta una causa per ingiusta detenzione e, dopo il rinvio della Cassazione al giudice di appello, ottiene una somma pari a 12.640 euro. Nello specifico, i giudici di merito hanno quantificato la cifra di 240 euro per ogni giorno di detenzione e, con criterio equitativo, quella di euro 10mila per il disdoro, documentato dai quotidiani locali.
Redditi diminuiti a causa della detenzione? L’interessato si rivolge nuovamente alla Corte di Cassazione visto che, a suo parere, l’incriminazione infamante «gli ha causato notevoli pregiudizi economici attestati dalle dichiarazioni fiscali che dimostrano il diminuire dei suoi redditi in conseguenza della privazione della libertà».
La Suprema Corte (sentenza 9211/12) precisa che il giudice nella liquidazione dell’indennizzo per ingiusta detenzione è svincolato da parametri rigidi e deve procedere con equità, «in base alla durata della privazione della libertà e delle conseguenze personali, familiari, patrimoniali e morali che ne sono derivate».
Manca il nesso causale. I giudici di legittimità concordano con i colleghi del merito circa la «mancanza di nesso causale diretto tra la diminuzione degli introiti e la privazione della libertà, stante la sua brevissima protrazione» (10 giorni).
Nel rigettare il ricorso, gli Ermellini affermano che, nel caso di specie, l’esercizio del potere discrezionale ha raggiunto «un risultato di intrinseca ragionevolezza» e, pertanto, non può essere da loro censurato.