di Valentina Ascione, da “Gli Altri”, 28-04-2012
Oggi a Senigallia inizia la XXVII assemblea generale di Amnesty International. Nel numero del settimanale che trovate in edicola abbiamo dedicato un approfondimento alla fragile tutela dei diritti umana che c’è nel nostro paese. Qui di seguito vi proponiamo un’intervista a Riccardo Noury, di Amnesty International Italia.
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Non sono soltanto un problema di dittature e altri regimi liberticidi, né una questione da relegare nelle agende di politica estera. I diritti umani, e la loro tutela, dovrebbero essere un tema fondamentale di discussione anche nelle società democratiche come la nostra. Ma il condizionale è d’obbligo, almeno qui in Italia, dove la disattenzione è forte, mentre il diritto internazionale boccia le politiche che negli ultimi anni hanno eroso i diritti dei migranti e non solo. Ne abbiamo parlato con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, alla vigilia della 27a Assemblea generale.
Come vanno le cose qui da noi sul fronte dei diritti umani?
L’Italia è stata un ospite fisso negli ultimi decenni del rapporto annuale di Amnesty international. E’ un paese nel quale le istituzioni hanno mostrato una costante disattenzione all’importanza della tutela dei diritti umani, quasi fossero un mero oggetto di politica estera e dunque avessero un senso e un valore al di fuori dei confini nazionali. Ne è l’esempio l’assenza del reato di tortura nel codice penale, un caso eclatante di disattenzione perché vede l’Italia in ritardo di un quarto di secolo rispetto a un obbligo che ha in tema di diritti umani.
Con delle ricadute concrete, come dimostra il processo per le violenze al G8 di Genova, o la sentenza sui maltrattamenti ai danni di alcuni detenuti nel carcere di Asti…
Quello della mancanza del reato di tortura è un caso emblematico ma niente affatto simbolico proprio perché la sua presenza o assenza nell’ordinamento penale significa in diversi casi – e cito uno dei più evidenti, cioè la sentenza per i fatti della caserma di Bolzaneto a Genova nel 2001 – pene adeguate alla gravità del reato commesso oppure prescrizione.
A cosa si deve questa riluttanza?
Sono state fornite ragioni diverse. La prima, infondata, è l’esistenza di fattispecie di reato che già lo contemplavano. Ma la tortura è un reato specifico, eccezionalmente grave e non può essere ricompreso in reati quali lesioni o lesioni gravi, anche perché le pene sono diverse. La seconda è che: siccome in Italia non c’è la tortura non c’è bisogno del reato di tortura, come ha detto qualcuno mostrando una discreta ignoranza in tema di norme internazionali e obblighi di attuazione dei trattati. Poi c’è chi ha pensato che introdurlo avrebbe messo in cattiva luce l’operato delle forze di polizia, ma l’accertamento di singole responsabilità non può che andare a riscatto della parte buona delle forze dell’ordine, che è evidentemente la maggioranza.
Intanto l’Italia è stata condannata per violazione, ad esempio nelle nostre carceri, dell’articolo della Convezione europea dei diritti dell’uomo che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti…
Lo stesso articolo, l’articolo 3, è stato richiamato nella recente sentenza della Corte europea riguardo alle politiche di respingimento che sono state una pagina sciagurata e illegale della storia recente, successiva all’accordo tra Berlusconi e Gheddafi. Ci sono poi sentenze importanti anche da parte di organismi interni, come quella del Consiglio di Stato del 16 novembre che ha dichiarato illegittima la cosiddetta emergenza nomadi, stabilendo che lo 0,23 per cento della popolazione italiana non può essere considerato alla stregua di una catastrofe naturale. C’è però un ricorso del governo contro questa sentenza che mira a tenere in piedi credo alcuni aspetti dell’impianto dell’emergenza nomadi, legati soprattutto agli investimenti fatti. Un segnale preoccupante. Così come preoccupa sentire che si rispetterà la sentenza sui respingimenti e poi vedere il ministro Cancellieri firmare in Libia un accordo i cui contenuti non sono pubblici. Noi abbiamo chiesto lo siano, perché non si possono riprendere gli accordi senza introdurre garanzie forti sui diritti umani.
Non c’è stato un segnale forte di discontinuità rispetto alle politiche del precedente governo?
Queste cose vanno misurate su un periodo più lungo. Ci sono certamente dei segnali che fanno pensare a un’inversione di rotta sui diritti umani. Mi pare però che non ci siamo ancora. Del resto, anche nel passato è difficile individuare su questi temi dei comportamenti radicalmente diversi da un governo all’altro. Penso al segreto di Stato sul caso Abu Omar posto dai governi Prodi e Berlusconi per cercare di contrastare le indagini. O ai fatti accaduti a Napoli nel marzo del 2001, che hanno preceduto Genova e per alcuni versi ne sono stati quasi la prova generale, mentre c’era il governo precedente a quello Berlusconi.
A volte sono le stesse istituzioni a certificare le violazioni. E’ di poche settimane fa il rapporto della Commissione straordinaria del Senato sullo stato dei diritti umani nelle carceri e nei centri per immigrati…
All’interno delle istituzioni ci sono esempi importanti di organismi che lavorano in maniera coerente con il titolo a loro affidato, come nel caso della Commissione del Senato che ha fatto un ottimo lavoro anche sui rom. E poi ci sono certamente sensibilità individuali. Quando penso all’89 per cento del Parlamento che ha votato a favore degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi, mi tengo anche stretto quell’11 per cento che votò contro pensando ai diritti umani.
L’Assemblea generale di Amnesty International ospiterà Ilaria Cucchi, Lucia Uva e la mamma di Federico Aldrovandi Patrizia Moretti, donne che si battono per far luce sulla morte dei propri familiari avvenuta nelle mani delle forze dell’ordine. Non dovrebbe essere lo Stato il primo a battersi per la verità e la giustizia?
E’ una risposta che tutti vorremmo dalle istituzioni. Io devo rispondere con un’altra domanda: che senso dei diritti umani c’è in un paese nel quale le istituzioni anziché collaborare cercano di ritardare l’accertamento dei fatti e la giustizia? Lasciare l’onere della lotta per la verità e la giustizia ai singoli familiari è brutto e richiama situazioni molto lontane da noi, come le madri di Plaza de Mayo in Argentina o le madri a lutto in Iran. Paesi con cui dal punto di vista dei diritti umani l’Italia non è comparabile, però è comparabile la solitudine dei parenti delle vittime. Il fatto che da parte delle istituzioni non ci siano parole di scuse lascia aperte molte ferite. Ciò vale in particolare per Genova, che è uno dei primi episodi di un decennio brutto dal punto di vista dei diritti umani e chiama in causa l’operato delle forze di polizia nel loro complesso. In undici anni non l’abbiamo sentita pronunciare questa parola semplice, di sole cinque lettere, che farebbe la differenza.
E’ più facile denunciare e condannare le violazioni dei diritti umani in casa altrui che in casa propria…
C’è timore, come se parlare di violazione dei diritti umani portasse uno stigma nei confronti delle istituzioni, quando è un elemento di dibattito anche nelle società perfettamente democratiche. Qui invece c’è la sensazione che il tema sia un tabù, specialmente quando sono in causa le forze di polizia.
Di contro, l’Italia ha ricoperto un ruolo fondamentale nella mobilitazione che ha portato all’approvazione della moratoria sulla pena capitale.
Una battaglia straordinaria e vincente, almeno sul piano dei numeri alle Nazioni Unite, però devo anche dire che quando si fa visita in Cina o in Giappone il tema della pena di morte non viene toccato. La politica estera, non solo italiana, è una politica incoerente, basata su due pesi e due misure. Siamo stati contenti di accompagnare la rivoluzione in Libia ma quando si sente gridare questa parola in Siria o in Bahrein si ha paura pensando a chissà quale esito contagioso possa avere…
Si riferisce anche alla recente trasferta asiatica del nostro premier?
I governi Prodi e Berlusconi hanno fatto a gara a chi era più solerte a far rimuovere l’embargo introdotto dall’Ue, dopo i fatti di Tienanmen, sulle armi alla Cina che nel frattempo è diventata uno dei principali esportatori di armi del mondo. E’ un segnale di come con certi paesi grossi il tema dei diritti umani passi in secondo o terzo piano. Capisco che si tenga conto di questioni legate ai rapporti internazionali, alla situazione economica, ma credo che creare un ambiente in cui i diritti umani sono rispettati a livello mondiale, anziché un mondo dominato dalla paura o dall’odio, favorisca anche altri aspetti come quelli economici e commerciali.
Non bisogna necessariamente scegliere, insomma…
Noi ne parliamo in maniera quasi accademica, ma c’è gente che paga le conseguenze altissime della scelta di non sollevare il problema dei diritti umani. Quando si fa una visita in un paese e si trascura la questione per non recare disturbo, poi il disturbo finisce per essere pagato da chi sta in carcere e magari viene torturato o ammazzato. Questo atteggiamento è ancora più incomprensibile nei confronti del Bahrein, minuscolo regno del Golfo persico. Se non si riesce ad avere un po’ di fermezza con i paesi che non hanno potere contrattuale a livello internazionale è veramente la fine. Non si fa nulla per mesi fino a che qualunque soluzione positiva risulta vana e quello che resta è fare la guerra. Che è il segno di questi ultimi anni di incapacità di gestire crisi internazionali.
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