La vicenda del finanziamento pubblico dei partiti si gonfia e preoccupa terribilmente i diretti interessati, in vista delle amministrative, mentre il tamburo dell’antipolitica rulla senza posa e attizza la stizza di un’opinione pubblica già di per sé abbondantemente incazzata per la crisi: la stretta fiscale, una massa di imprese che chiude, decine di imprenditori che si sono uccisi, aumento della disoccupazione con difficoltà di trovare i soldi per gli ammortizzatori sociali… I partiti scontano la colpa di avere ignorato il segnale dato dal referendum del 1993, che abolì il finanziamento pubblico: ma il rinnovato finanziamento, in sfregio alla costituzione, che pur sempre si invoca, è diventato il catalizzatore di tutte le proteste. Oggi la reazione è diversa, ma nel complesso inadeguata, e tale resterà finchè non verrà messo direttamente in discussione il ruolo assunto dai partiti come gestori della vita civile, sociale, economica culturale della nazione, in pratica accettato in generale (di fatto svuotando le istituzioni di autonomia decisionale), ma da alcune parti tuttora proposto come salvaguardia della democrazia, nonostante la degenerazione spartitoria e consociativa della prima Repubblica, che nella seconda si è protratta. E così, per esempio, Alfano ne promette, all’improvviso, l’abolizione (beccandosi subito l’allusiva replica: tanto voi ce l’avete chi paga i conti) e Bersani si impegna per dimezzare il finanziamento pubblico…. Del quale non mancano, comunque, difese teoriche, come quella di Ugo Sposetti, tesoriere DS (v. il Foglio del 25 aprile) che rispolvera la vecchia tesi per la quale i veri partiti debbano avere una presenza radicata e stabile nella società, in modo tale da recuperare radici, valori, etica di comportamento e risorse adeguate perché proprio solo essi possono impedire che le istituzioni finiscano nelle mani di chi ha i soldi: in parole povere, facciamo la seconda edizione del PCI, come partito etico e partito degli onesti. Poi c’è chi vorrebbe utilizzare il sistema del 5 per mille, per alcuni però senza che il cittadino menzioni il partito cui lo vuole destinare (e così si tornerebbe alla distribuzione di stato) oppure ammettere che il cittadino possa disporre allo scopo fino a una somma di 2.000 euro, dei quali però 1.900 gli verrebbero restituiti sotto forma di crediti di imposta; un sistema che ripeterebbe il finanziamento pubblico con oneri per l’erario anche di decine e decine di miliardi, sia pur improbabili, vista l’aria che tira. Diventerebbe una forma di evasione fiscale legalizzata, tra l’altro, perché pagando in sostanza solo 100 euro si potrebbero risparmiarne 1.900, ad esempio di IMU o di altre imposte… e addio debito pubblico. E allora una prima osservazione viene subito spontanea ed è che il finanziamento dei partiti, è problema che non può porsi altro che nel quadro di una discussione sulla natura e il ruolo dei partiti medesimi, perchè se i partiti restano quelli che sono, non si riuscirà mai a fare passi avanti significativi verso soluzioni condivisibili dalla generalità dei cittadini. L’49 della costituzione, riconoscendo ai cittadini il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere a determinare la politica nazionale, muove da una concezione diametralmente opposta da quella corrente: del finanziamento dei partiti non si parla, per rispetto del diritto di autodeterminazione del cittadino e proprio nel campo della libertà politica. Il cittadino i suoi soldi li à a chi gli pare, ovviamente per fini leciti, e questa è una modalità principe perché egli faccia politica; e nulla vieta che, per sua libera scelta, li possa dare non a un solo partito, ma a due o tre o più; soprattutto che li dia per finalità e iniziative specifiche, anche promosse da partiti, certamente, compresa una campagna elettorale. Come gli pare: purchè sia salva la trasparenza, purchè si sappia quanto dà e a chi dà. Finanziare la politica, non i partiti come tali! La famosa partecipazione, che tuttora, come venti o trenta anni fa, si propone come contentino per questi famosi cittadini costretti a pagare imposte per finanziare un meccanismo pubblico autoritario, è la forma attraverso la quale il diritto di libertà politica (nel senso attivo, di fare politica) viene soppresso e il singolo viene costretto a dare i suoi soldi anche ai partiti che detesta… Bella tutela della libertà e bel rispetto per la democrazia, che è, nella sua essenza, un meccanismo istituzionale per consentire proprio il cambiamento attraverso metodi pacifici e con procedure legali: altro che partiti stabili! Il partito radicale negli anni settanta, anche prima di entrare in Parlamento, con la battaglia per il divorzio ruppe l’omertà tra DC e PCI e avviò lo sconquasso del regime dei sei partiti del così detto arco costituzionale, iniziando proprio quel percorso che oggi, quarant’anni dopo, determinerà la scomparsa dei partiti che si ostinano a non cambiare rotta. agenziaradicale.com link: tinyurl.com/cql24lg [3]
Fonte: http://radicaligenova.iobloggo.com/619/finanziare-la-politica-non-i-partiti [4]