Da “La Lettura” (Corriere della sera) – 19 febbraio 2012
Il digiuno di Gadhi era l’arma del debole contro il potente, ma gli scioperi della fame dei Radicali non sono democratici
di Sergio Romano
Negli scorsi giorni una coppia di giovani greci si è affacciata su due balconi al quinto piano di un palazzo di Atene. Entrambi avevano perduto il lavoro, erano sommersi dai debiti, non erano in grado di pagare l’affitto e minacciavano di gettarsi nella strada dove la gente, nel frattempo, aveva cominciato a formare qualche capannello. Non è stato difficile persuadere il marito ad andarsene, ma sono passate cinque ore prima che la moglie accettasse dì abbandonare il balcone. È probabile che nessuno dei due avesse l’intenzione di morire. Forse volevano soltanto gridare la loro disperazione. Da noi, qualche tempo fa, alcuni extracomunitari disoccupati e minacciati di espulsione si sono accampati sulla sommità di una gru. Altri preferiscono un tetto, una torre o i binari d’una ferrovia. Altri ancora ricorrono allo sciopero della fame o della sete. È accaduto nelle carceri britanniche quando i detenuti dell’Ira (Trish Republican Army) si servirono di questo mezzo per combattere contro il governo di Londra e dieci di essi, fra cui Bobby Sands, morirono nel 1981. È accaduto nelle carceri turche durante gli anni Ottanta, più recentemente nelle carceri cubane e in quelle americane di Guantanamo. Ma è accaduto con grande frequenza anche al vertice del Partito radicale dove Marco Pannella ne ha fatto lo strumento preferito di quasi tutte le sue principali battaglie.
Nel linguaggio corrente queste forme di protesta appartengono alla categoria della «non violenza» e i digiuni, in particolare, sono nobilitati dal grande esempio del Mahatma Gandhi all’epoca della sua memorabile battaglia contro l’impero britannico. Satyagraha, la parola indiana che definisce queste battaglie, viene spesso tradotta come «vera forza» o «fermezza della verità», e descrive una lotta in cui il combattente non colpisce, non uccide, non ricerca lo scontro fisico con il nemico. In un bel libro autobiografico scritto con Giovanna Casadio (I doveri della libertà, Laterza), Emma Bonino giustifica questa prassi scrivendo: «I metodi di lotta che noi radicali adottiamo – dal Satyagraha alla disobbedienza civile – non sono provocazioni nel senso tradizionale del termine. Non mirano a irritare o a suscitare una controreazione fisica; puntano piuttosto a provocare un pensiero “altro” rispetto a un tema di cui non si vuole neppure sentir parlare». A me sembra invece che tra la disobbedienza civile e i digiuni occorra fare una distinzione. Il rifiuto di obbedire a una legge può essere, in termini strettamente legali, un reato. Ma ciò che viene iscritto sulla fedina penale di un cittadino non è necessariamente una colpa politica. Le leggi non sono sacre. Sono prodotti storici delle società politiche e possono essere in alcune circostanze desuete, anacronistiche o addirittura ingiuste. Il cittadino che disobbedisce e che è pronto a pagare il prezzo della sua disobbedienza di fronte a un giudice, non è un criminale. Lo sciopero della fame e della sete invece è una forma di lotta in cui il combattente usa come arma estrema il proprio corpo ed è pronto a sacrificarlo alla sua causa. Credo che i radicali, quando si richiamano al grande esempio di Gandhi, commettano un errore. Il Mahatma sapeva che da una guerra convenzionale contro l’impero britannico i suoi connazionali sarebbero usciti perdenti. Non avevano le armi dei loro nemici, non erano in grado di mobilitare e organizzare una parte importante della popolazione ed erano irrimediabilmente votati alla sconfitta. Avevano tuttavia il loro corpo e potevano usarlo. Il digiuno di Gandhi contro la Gran Bretagna, quindi, è l’arma del debole in una guerra asimmetrica di liberazione. Non sorprende che venga usata, per cause buone o cattive, da chi è impegnato in un conflitto e non ha le armi di cui dispone il nemico. Non sorprende, quindi, il digiuno degli irlandesi ieri e quello praticato oggi dai cubani, dai palestinesi, dai gruppi rivoluzionari, dai prigionieri di coscienza. Mi sorprende invece il digiuno di chi chiede un lavoro o protesta contro alcune particolari politiche dello Stato in cui vive a da cui riceve una somma considerevole di alti vantaggi, fra cui quello della rappresentanza politica. Particolarmente contraddittorio mi sembra il digiuno dei radicali. Sono certo che non vogliano trasformare la politica interna in un campo di battaglia, ma così accade, di fatto, quando un uomo politico minaccia di usare il proprio corpo come un’arma letale e si dichiara pronto a morire pur di raggiungere il suo scopo. Se la politica democratica è lotta senza spargimento di sangue, questa, spiace dirlo, non è più democrazia. Naturalmente lo sciopero della fame non ha nulla a che vedere con il terrorismo suicida perché non minaccia altre vite. Ma anche nel digiuno vi è potenzialmente il martire, vale a dire un personaggio estraneo alla logica dei conflitti democratici. Paradossalmente il Partito radicale è il più laico dei movimenti politici italiani, ma si è servito degli handicap fisici di alcuni fra i suoi più tenaci militanti per creare il «martire», vale a dire un personaggio che appartiene alle guerre di religione piuttosto che alle battaglie civili. Nella grande maggioranza dei casi i digiunatori, naturalmente, non desiderano la morte. Vogliono vivere, combattere, e sperano di vincere costringendo l’avversario a deporre le armi. Ma questo, spiace dirlo, è un ricatto. So che la parola non parrà giusta ai radicali e che molti di essi replicherebbero all’accusa puntando il dito sulla chiarezza e sulla trasparenza con cui effettivamente conducono le loro battaglie liberali. Ma dovrebbero chiedersi quale sia stata, nei casi in cui hanno avuto successo, la ragione delle loro vittorie. Hanno vinto perché, come scrive Emma Bollino, hanno «saputo provocare un pensiero “altro” rispetto a un tema di cui non si vuole neppure sentir parlare»? O hanno vinto perché il «nemico» era impaurito dalla possibilità di apparire responsabile del loro decadimento fisico e, in ultima analisi, della loro morte? Se la risposta giusta è la seconda, la parola ricatto mi sembra appropriata.
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