(da “Civiltà moderna, battaglie del pensiero laico”, anno 1, n.1 giugno 1947, direttori Marcello Capurso e Franco Bertarelli)
In una delle piazze più vecchie di Roma, piazza San Calisto in Trastevere, c’è un palazzo nuovo. Dagli archi e dalla prevalenza della pietra classicheggiante e “imperiale” esso si direbbe opera del solito Piacentini. Ad ogni modo si tratta della sede ricostruita nel 1936, delle sei Sacre Congregazioni Apostoliche, una delle quali è quella degli Studi, dei Seminari e delle Università cattoliche. Un’aquila che sormonta tre palle in alto rilievo sul portale ci dice al primo sguardo che da quella sede si allunga il braccio secolare della Chiesa cattolica.
La Congregazione degli Studi, ecc. controlla, in Italia, circa duemila istituti di istruzione media; forse qualcuno in più anzi che in meno. Si tratta di un controllo sui generis, in quanto gli istituti, destinati all’istruzione secolare (che nel linguaggio congregativo viene detta anche laica) non sono sottoposti al sindacato religioso, né a verifiche di carattere finanziario. I loro bilanci sono impostati sugli incassi provenienti dalle rette che annualmente, come vedremo, sono da considerarsi inaccessibili per i giovani che non appartengono a ricche famiglie. Quanto al metodo d’insegnamento, che si può dire coincida col grado di religiosità necessario perché gli istituti si chiamino cattolici e quindi rientrino nella sfera della Sacra Congregazione, esso è garantito e anche controllato dalla regola a cui ciascuna scuola è più o meno legata. E’ noto infatti, come gesuiti, scolopi, salesiani eccetera, dispongano di scuole fondate separatamente con orientamenti e metodi diversi.
Il controllo esercitato dalla Congregazione, si riduce, dunque, a una specie di controllo di legittimità. Infatti è dalla Congregazione che viene rilasciato il nulla osta agli istituti che chiedano di essere pareggiati con le scuole statali. Altro compito che spetta all’organo centrale è quello dei rapporti con lo Stato (laico) e quindi col Ministero della Pubblica Istruzione.
Circa duemila scuole elementari per lo più tenute da suore, dipendono dalla Congregazione. Data però la capillarità e la dispersione di questi piccoli organismi, i rapporti col centro, a quanto ci si dice negli ambienti congregatizi, sono piuttosto generici. Anche per queste scuole si può rinviare a quelle che sono le regole e le consuetudini delle varie Case Madri, autonome secondo la natura delle rispettive fondazioni, ma anche libere di stringere, per quanto concerne le proprie scuole i rapporti più diversi con le gerarchie ecclesiastiche.
Delle varie Università cattoliche, una è specialmente nota per essere l’unica pareggiata, quella del Sacro Cuore in Roma. Le lauree in utroque iure conferite dalle sue facoltà sono titoli equivalenti alle lauree di Università laiche.
Di quale entità è la popolazione che fluttua nei più di quattromila tra Istituti medi ed elementari? Per questi ultimi non è facile fare delle cifre: circa duecentomila sono gli studenti che popolano gli Istituti cattolici di istruzione media pareggiati in Italia. Qualunque sia il punto di vista dal quale le si vogliono considerare, queste cifre sono rispettabili e determinano una serie di considerazioni. Da esse sorge, ad ogni modo, quello che è il problema delle scuole confessionali.
Quando San Giuseppe Calasanzio fondò le Scuole Pie, o quando San Giovanni Battista De La Salle fece altrettanto per la Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane, evidentemente non esistevano nella società le condizioni che oggi fanno degli Istituti religiosi di istruzione l’oggetto dell’attenzione per lo meno preoccupata, di molti di coloro che nella società e per la società lavorano e studiano.
Il fine che si proposero i detti santi uomini, che più degli altri affrontarono organicamente il problema della scuola, fu quello di dare la possibilità ai poveri di dotarsi di quegli strumenti culturali e professionali che soli consentono ai meno forniti di ricchezze di poter competere nella lotta per la vita con coloro che dispongono delle potentissime armi del denaro e dei privilegi di classe. Un fine sociale, dunque; un fine, che, potremmo dire, si riscontra in molte opere di Santi.
Infatti tanto le scuole Pie, come quelle fatte sorgere dalla Congregazione dei Fratelli Salesiani delle Scuole Cristiane, furono completamente gratuite e non intervenendo quindi la fatale selezione delle alte vette, frequentate da giovani operai, artigiani, popolate di poveri. Le generazioni che poterono illustrarsi dei Bruno, dei Vico, dei Colletta, degli Spaventa (e su questi esempi il Vaticano ebbe poi a considerare se fosse conveniente allevare nel seno di istituti confessionali il liberalismo che con le armi politiche cercava di combattere), quelle generazioni ebbero le loro scuole gratuite o a bassissime rette, in virtù dei nobili programmi di cultura popolare impostati e svolti da uomini di chiesa che sostanzialmente e, può darsi, senza sospettarlo, erano dei liberali.
Motivo per cui né San Giuseppe Calasanzio, né San Giovanni Battista De La Salle avrebbero mai potuto sospettare che le scuole da essi fondate si sarebbero col tempo trasformate fino a diventare ciò che essi rappresentano per la società, tanto per citare i più nominati istituti confessionali di Roma. Il Collegio Massimo, il Nazzareno, il San Giuseppe, o il De Merode, la cui fondazione risale appunto ai due predetti, come al solito sfortunati, benefattori del popolo.
Senza ricorrere agli annali di quegli Istituti, benemeriti nella loro giovinezza, pericolosi addirittura nella senilità, è possibile con economia di sforzi e di tempo descrivere la loro storia. Nati per l’istruzione popolare, non contavano all’origine che sui capitali forniti dai lasciti, dalle elargizioni e da qualche raro sussidio vaticano. Per qualche tempo, quindi, la vita di quelle scuole fu assicurata secondo le intenzioni dei fondatori. I poveri (almeno una parte dei poveri) potevano studiare, mentre i ricchi continuavano ad istruirsi nei loro palazzi sotto la guida dei precettori scelti dalle famiglie. Per comprendere quale fosse la differenza tra un tipo e l’altro di istruzione, basta ricordare ancora una volta Vittorio Alfieri che, per poter imparare finalmente qualche cosa dopo anni di subordinazione cieca ai precettori che gli venivano imposti, dovette, trentenne, ricominciare da capo. Dal popolo, intanto, sorgevano con minori difficoltà, uomini liberi come Parini, Foscolo e Pellico.
Ma, per ritornare al destino delle scuole confessionali, queste ben presto rischiarono di dover chiudere le porte. I benefattori non si trovano dietro tutte le cantonate e d’altra parte non è vero che il Vaticano si a prodigo di sussidi. Forse lo è stato in un primo tempo. Ma molte considerazioni dovettero influire sull’alto clero nell’indurlo a non favorire il finanziamento regolare di scuole gratuite. Certo, infiniti sono i compiti che il centro della cattolicità si è assunti per i suoi fini e quando si pensa all’estensione enorme del mondo cattolico, limitata funzione sembrerebbe quella dell’insegnamento. Ma è altrettanto certo che il Vaticano, pur non assumendosi direttamente oneri troppo gravi, non ha mai sottovalutato l’importanza di tenere in vita le proprie scuole e anzi ne ha sempre favorito lo sviluppo.
Ad ogni modo, come e quando le scuole incominciarono a costituire una delle principali posizioni clericali? Fu proprio quando gli Istituti incominciarono ad avere vita grama, e fu sollecitandone la trasformazione in scuole a pagamento che i gruppi clericali, da quel punto di vista più avveduti, dotarono la classe dirigente cattolica di un nuovo strumento di lotta, o per lo meno, di resistenza contro i mutamenti che la storia andava maturando.
Ciò si verificò specialmente quando i poteri statali in Italia passarono dalle autorità ecclesiastiche a quelle laiche. Allora, a parte le altre misure prudenziali di cui solo ora riusciamo a comprendere l’importanza (fondamentale l’alleanza tra gruppi clericali e gruppi laici legati alla proprietà terriera nel Mezzogiorno d’Italia), le scuole confessionali diventarono il baluardo e la riserva della futura conservazione sociale.
Per determinare degli spostamenti sociali, niente è più operante del denaro. Dove c’è da pagare, il povero non si avvicina. Dunque bastò che gli Istituti religiosi stabilissero delle rette per la frequenza, perché subito incominciasse il deflusso dei giovani senza mezzi e l’afflusso degli abbienti. La trasformazione delle scuole (in verità si tratta della più radicale delle riforme, anzi delle controriforme) fu anche favorita dal sorgere delle scuole pubbliche statali, dalle quali era facile tener lontani i figli dei vecchi sudditi dello Stato pontificio. Intanto andava trasformandosi anche il sistema di istruzione tradizionale alle famiglie nobili e ricche. Ai nuovi cittadini bisognava insegnare le nuove scienze, non bastava più un solo precettore; le scuole dei Gesuiti erano rinomate per il rigore delle discipline, incominciavano ad essere ben frequentate. Così i collegi come il Nazzareno, il San Giuseppe o il De Merode sono potuti diventare quelli di oggi: scuole dove si paga anche trentamila lire di retta all’anno.
Ora, che ci siano delle scuole per cattolici, dove le famiglie cattoliche vogliono che i propri figli si istruiscano, non è un fatto politico. Cioè, non lo è all’origine e non lo è in astratto. Non facciamo qui una questione di fiducia o di sfiducia verso la religione cattolica. Anzi dobbiamo dire che la critica che noi facciamo se non è attinta, almeno proviene da gruppi la cui formazione è schiettamente cattolica. Del resto, nessuno può impedire ad altri di istruirsi come vuole. Tuttavia non si può non rilevare la particolare funzione che le scuole confessionali hanno esercitato nella formazione dei quadri della borghesia italiana. Anche ammesso che l’insegnamento in esse praticato sia stato e sia sufficientemente libero (il che in molti casi è certamente da riconoscersi), è incontestabile che gli Istituti cattolici che dovevano essere le scuole dei poveri, sono (e quel che è più grave, rimarranno) le scuole dei ricchi.
Le alte rette che questi Istituti sono costretti a praticare, e, anche se non fossero costretti, noi non crediamo che dalla Sacra Congregazione degli Studi si farebbe alcunché per mutare le cose, attireranno verso di essi unicamente i giovani delle classi ricche. Tutti coloro che in quegli istituti hanno passato qualche anno, possono testimoniare che l’ambiente in cui si svolgono gli studi non è di tutti e per tutti, ma è un ristretto circolo di casta, riproduzione rigida della classe da cui provengono gli alunni.
Che da tale rigidità necessariamente derivi la controllabile rigidità degli strati cattolici i cui quadri dirigenti finiscono con l’essere tutti d’una classe sociale, ciò deve interessare soprattutto i cattolici e in particolare i laici e gli ecclesiastici più qualificati della società clericale. Essi hanno la responsabilità, di fronte alla religione che professano, di questo stato di fatto. Ma i cattolici in Italia, a parte le statistiche totalitarie che ne fanno i cardinali Schuster e Canali, non sono pochi; onde la loro presenza nella convivenza sociale non può essere valutata politicamente. E del resto, dal momento che esiste un partito cattolico al quale fu affidata dalle circostanze perfino la direzione del Governo, non è neppure necessario spiegarsi il problema, che esiste obiettivamente.
E’ del pari un problema obiettivamente esistente quello delle scuole confessionali aperte, come si è visto, unicamente ai ricchi,le quali già nel passato come oggi, costituiscono rispetto alle scuole pubbliche, il polo opposto a disposizione della classe privilegiata della nostra società. Noi non intendiamo dimostrare che quella classe debba essere privata dei suoi strumenti; non è questa la sede più adatta. Si potrà dire che la divisione, anche soltanto nel campo della cultura, consente un’utile statistica. Può darsi; noi non intendiamo però additare ai lettori il pericolo che per una democrazia a larga base costituisce ogni sistema che favorisca la divisione per casta.
Una sola scuola cattolica in Roma pratica per tradizione rette non troppo elevate ed è l’Istituto Pio IX sull’Aventino. Si tratta di una scuola di avviamento professionale e commerciale destinato in origine ai figli degli artigiani e dei commercianti (il proletariato della Roma di Pio IX assolutamente priva di industrie). Oggi la retta è di dodicimila lire annue, che non sono molte in confronto alle trenta o quarantamila lire dei più noti Istituti, ma superano di gran lunga le somme richieste dallo Stato per le scuole pubbliche. Motivo per cui quell’istituto e tutti gli altri dello stesso tipo sono diventati la palestra dei figli degli arricchiti e dei giovani falliti che restano ai margini delle scuole cattoliche di rango più nobile. Un capitolo a parte meriterebbero le scuole tenute da monache, scuole per l’infanzia soprattutto. Si tratta, come ci è parso occupandoci della Sacra Congregazione degli Studi, di un mondo pieno di candidi misteri.
Resta ora da porsi una domanda oggi di grande attualità. La risposta a questa domanda servirà a spiegare fino a qual punto, e a costo di quali azioni, i cattolici che oggi sono nella vita politica italiana vogliono fare della scuola una fortezza per sé e per la classe sociale che finiscono per rappresentare. La domanda è questa: se la posizione assunta dalla Democrazia Cristiana per quel che riguarda gli articoli della Costituzione sulla scuola sia una posizione puramente ideologica o una vera e propria posizione di battaglia con quel che una battaglia comporta di azioni concrete, agguati, colpi di mano, armi segrete.
L’onorevole De Gasperi inaugurò il suo primo ministero includendo tra le molte promesse, quella che il suo partito non intendeva porre la questione della scuola e precisò che egli si sarebbe anche adoprato ne nihil varietur. Ma l’espressione, d’un latino probabilmente ispirato, si riferiva, come i fatti dimostrarono ben presto, soltanto al periodo precedente ai dibattiti costituzionali. Peraltro nihil variatum est unicamente alla superficie. Che cosa avveniva sotto la crosta formale?
Tutti poterono constatare quanto interesse la Democrazia Cristiana mostrasse di avere in coincidenza con le crisi ministeriali, alla conquista del Ministero della Pubblica Istruzione. Col secondo governo De Gasperi, questo Ministero toccò, infatti, all’uomo che era in serbo già da tempo.
L’on. Guido Gonella iniziò subito la sua opera per sostanziare convenientemente la formula del ne varietur. Presto si riseppe in tutti i circoli politici della Capitale che il nuovo ministro si era costituito un gabinetto di enorme numero di persone, scelte accuratamente tra fidatissimi iscritti alla Democrazia Cristiana. Da cinquanta a cento persone – tutte addette a far passare attraverso la cruna dei propri aghi le esigenze della scuola – sono poche rispetto all’immenso lavoro che richiederebbe una sana e giusta riforma della pubblica istruzione in Italia; ma sono davvero quello che ci vuole per impadronirsi della scuola così come è oggi congegnata. Tuttavia questo ministero nel ministero non fu sufficiente, o tale non sembrò al Ministro. Questi infatti con un altro buon nerbo di iscritti al suo partito, costituì una Segreteria particolare, la quale fu investita di tutte le più importanti questioni, dopo che ne erano state completamente esautorate le competenti Direzioni Generali.
Quest’ultimo ufficio, che è come un gabinetto di guerra in un governo di tecnici, iniziò subito la sua attività prendendo direttamente quei provvedimenti che per legge o regolamento spettano ai Provveditori agli Studi e alle Direzioni Generali. Ad esempio, il movimento dei Provveditori, che sarebbe spettato alla Direzione Generale del Personale – e che avrà una grande importanza elettorale – è stato fatto dal Ministro con pochi fidati della Segreteria, richiedendo all’ufficio competente cinquanta telegrammi in bianco. I deputati democratici cristiani e non pochi prelati intervennero direttamente presso la Segreteria particolare del Ministro contro funzionari, specie contro Provveditori agli studi, restii alle loro pressioni. Dette richieste hanno spesso trovato protezione presso la attivissima Segreteria e soltanto ispezioni inviate, per gravi scandali denunciati dall’opinione pubblica, nei vari luoghi, riescono ad evitare ingiustizie ed abusi. Al Ministero viene citato il caso del dottor Vito D’Ambrosio, segretario presso il Provveditorato di Padova, il quale era diventato il bersaglio di un deputato e di alcuni prelati della regione.
Quanto alle Direzioni Generali del Ministero, soltanto quella delle Belle Arti è tenuta da persona non legata al Ministero, il professor Ranuccio Bianchi Bandinelli. Ma questi intende ritirarsi dall’ufficio col 1 luglio prossimo. Così l’on. Gonella (nel caso che rimanga ministro) avrà un’altra posizione chiave del suo ministero che non è improbabile affidi ad un suo amico.
Sembrerà strano che di tutto ciò non si sia impossessata l’opinione pubblica. Ma la cosa apparirà spiegabile apprendendo che il segreto d’ufficio viene rigidamente mantenuto dal Capo Ufficio Stampa del Ministero, voluto ad ogni costo dal Gonella, nella persona del Provveditore agli studi Valitutti.
Tuttavia non sempre il rigido revisore di notizie, più che d’ufficio, di partito, riesce nel suo compito. Tempo addietro l’Avanti! Denunciò un fatto veramente singolare e che non sembra possa trovare riscontro presso altri Ministeri. Nella Commissione che deve rivedere i titoli fascisti del personale ispettivo e direttivo delle scuole elementari erano stati inclusi due funzionari, reduci della repubblichetta di Salò dove si erano volontariamente recati. Si narra negli ambienti ancora non democristiani del Ministero che il Capo Ufficio Stampa Valitutti rischiò, dopo la rivelatrice pubblicazione, di perdere il posto. Ma i due commissari repubblichini fanno ancora parte della Commissione per la rimozione dei fascisti.
Non bisogna però dimenticare che il Ministro Gonella, mentre provvedeva ad organizzare rigidamente il suo dicastero, si preoccupava nello stesso tempo di riformare la scuola. Infatti nominava alla chetichella una commissione per la riforma, affidandone la presidenza al prof. Leonardo Severi.
Urgeva anche risanare tutto il corpo degli insegnanti, da quello universitario a quello degli Istituti superiori, inquinato durante il ventennio fascista. Si imponeva la famosa revisione delle nomine universitarie per “chiara fama”. Sono note le vicende che hanno portato alle dimissioni di ventuno su trentasei dei membri del Consiglio Superiore dell’Istruzione, fra i quali il democristiano professor Colonnetti e il cattolico Arturo Carlo Jemolo. Scavalcando con disinvoltura il giudizio del Consiglio Superiore, competente di diritto, il Ministro riconfermava le nomine per “chiara fama” dietro parere delle Facoltà. In una recente dichiarazione alla stampa lo stesso onorevole Gonella ha dovuto limitarsi a dire che “non tutte le nomine sono state confermate”. Ipse dixit.
Si capisce che soltanto faticoso sarebbe, non certo difficile raccogliere e illustrare un congruo numero di episodi di questo genere. Un Gabinetto ministeriale forte di circa cento persone e una Segreteria particolare come quella dell’onorevole Gonella hanno adottato un ritmo di lavoro che evidentemente risponde a un ferreo programma. Il lettore si accontenti comunque degli esempi che abbiamo portati.
Ritorniamo piuttosto per un momento alla persona del Ministro cercando di immaginarlo nel suo gabinetto di lavoro mentre nelle altre stanze, attorno a lui, ferve il lavoro animato dalle sue direttive. Fu in quel gabinetto che il ministro convocò, in occasione del recente sciopero generale, tutti i funzionari del Dicastero e ad essi tenne un lungo discorso sulla scuola e sui doveri del personale impiegatizio che ai suoi problemi si dedica. Sembra che avvicinandosi l’ora normale dell’uscita dagli uffici e nessuno avendo prima di quell’ora, per timore reverenziale, disertato la conferenza, qualcuno si domandasse a che scopo il Ministro avesse scelto quell’occasione per intrattenere i suoi dipendenti.
E’ evidente, tuttavia, che questi episodi si verificano eccezionalmente. La abituale attività dell’onorevole Gonella è dedicata direttamente alla scuola. A parte l’interessamento spiegato recentemente per i professori delle scuole medie tra i quali il Ministro, e ciò è doloroso per lui, ha perduto molti estimatori, ciò che preoccupa il Gonella è la realizzazione del suo programma.
Uno dei cardini del programma del Ministro sembra essere il proposito di incrementare il più possibile l’afflusso dei giovani agli studi. Proposito questo, che negli ambienti privi di malizia presenta il Gonella sotto l’aspetto di un civilizzatore di massa e che, a voler dare un valore all’enorme numero di studenti di ogni disciplina che in questi ultimi tempi ha saturato la scuola italiana, grande fama apporterà a chi di esso ha fatto la propria bandiera.
Secondo alcuni il Gonella vorrebbe con la sua superpopolazione della scuola sanare i deficit che specialmente affliggono le università, molte delle quali sono sull’orlo di un vero e proprio fallimento finanziario. E al benefico scopo sembra indirizzarsi la ferma volontà del Ministro perché le tasse universitarie non siano aumentate; mentre risulta che con opportuno e facile censimento l’aumento potrebbe essere, come suol dirsi, stornato a carico degli studenti ricchi, permettendo ai poveri di studiare, giustamente, a spese dei primi. E’ probabile che l’on. Gonella sia convinto di questa necessità di giustizia scolastica; ma egli, diffondendo la persuasione che, mentre tutto aumenta, la scuola resta a buon mercato, mostra d’essere altrettanto convinto dell’urgenza di fare d’ogni italiano un laureato.
Molto in questo deve aver influito la direttiva dell’on. De Gasperi del ne varietur. Ciò che si rileva anche nella assoluta indifferenza del Ministro di fronte alla sistematica astensione delle scuole private e confessionali dal pagamento dei contributi di legge all’Erario. E qui chi non avesse letto il principio di questa esposizione potrebbe domandarsi che cosa ne pensi, in realtà, il Ministro Gonella della scuola privata, organizzata da Enti religiosi.
Rispondere alla domanda finirebbe, però, col sembrare ingenuo o superfluo.
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