NAPOLI – Le notti di Scampia sono due. Il tempo è clemente e risparmia – prendendosi una tregua in una notte di acqua e di gelo – la passeggiata istituzionale che il prefetto Andrea De Martino decide nel tardo pomeriggio di giovedì di fare al corso Secondigliano. Passano due ore e gli scenari mutano. Non solo iniziano a cadere gocce di pioggia pungenti come spilli, ma nei quartieri dell’area nord di Napoli – spentisi i riflettori delle telecamere e i lampeggianti della auto blu – riaprono le piazze dello spaccio.
Le istituzioni, con la loro ingombrante presenza, qui, sono come il solletico. Dà fastidio. Ma poi passa. E tutto torna come prima. Qui poco c’entra il «coprifuoco» imposto in zone più periferiche – si parla genericamente di Scampia, ma tutti sanno bene che è da Melito a Casavatore che la camorra ha dato quell’ordine di chiusura anticipata degli esercizi commerciali, anche perchè a Scampia non ci sono negozi; ma è qui – nel regno di Gomorra – che si prendono le decisioni strategiche.
Scampia e le sue notti. Qui, dove il grande supermercato dei sogni artificiali non chiude mai i battenti, nemmeno il termometro che scende sotto lo zero o una pioggia battente riescono a frenare il lugubre corteo dei tossici che disciplinatamente si mettono in fila sui ballatoi delle famigerate Case dei Puffi – uno dei fortini attualmente più controllati dagli scissionisti del clan Amato-Pagano. Li guardi negli occhi e ti sorprendi nel vedere che non sono i soliti fantasmi, i morti che camminano e si muovono sugli autobus dell’Anm dalla Ferrovia alle Vele. No. Sono ragazzini e giovanissime donne, molti dei quali hanno la faccia pulita, figli di buona famiglia insomma.
Nemmeno l’arrivo della polizia li distoglie, la comparsa degli agenti non li mette in fuga. tanto sanno che di lì a mezz’ora la vedita riprenderà. C’è pure chi si è organizzato, portandosi appresso i cartoni con le pizze calde. Fa freddo. Ma la notte è lunga e la bustina di coca prima o poi scivolerà da qualche parte finendo in tasca.
Eppure questa è una notte che porta male per lo spaccio, a Scampia. I servizi disposti dalla Questura assomigliano a piani di guerra. Le Volanti del commissariato diretto da un poliziotto che è diventato la bestia nera per gli scissionisti – il primo dirigente Michele Spina – insieme con gli uomini della «giudiziaria» (i veri cani da fiuto, i soli a sapere dove, come e quando entrare in azione), e le auto dell’Ufficio prervenzione generale stanno per stringere in una morsa blindata le tre piazze di spaccio che ancora resistono alle offensive di polizia e carabinieri. Case dei Puffi, i lotti TA e TB e i cosiddetti Sette Palazzi. Una «picchiata» dopo l’altra, come la goccia che scava la pietra, la camorra è costretta a subìre e a piegarsi. Si vende meno, è un colpo per i clan. Finisce così che l’assedio della polizia riesce a far cadere nella rete due ricercati sfuggiti a un precedente blitz. In manette finisce pure Salvatore Russo, il quinto attore non protagonista del film «Gomorra» di Matteo Garrone che dalla finzione scenica finisce nel dramma di un «real» che peggiore non potrebbe essere. Era l’uomo che sottoponeva alla prova del fuoco, del coraggio, il ragazzino (oggi 19enne, e pure lui finito in manette per spaccio solo pochi giorni fa) sparandogli al petto dopo avergli fatto indossare un giubbotto antiproiettile. «Peccato – dice agli agenti che lo portano in carcere – così ho perso due lavori». Gli scissionisti lo avevano assoldato per fare la sentinella otto ore al giorno in una delle piazza delle Case dei Puffi. Arrotondava in questo modo lo stipendio di dipendente comunale, con la qualifica di giardiniere. «Perderò il posto adesso, è vero?», domanda al dirigente del commissariato Michele Spina. Gli sguardi dei poliziotti valgono più di una risposta. Succede nel 2012 a Scampia, Napoli, Italia, in una notte di pioggia e di gelo che dice tutto sulla realtà di una periferia morta e senza più speranze.
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