Abolire il finanziamento pubblico ai partiti è una battaglia che Pannella e i suoi portano avanti dal 1977. In quell’anno fu indetto un referendum che non passò per via del voto contrario dei comunisti. Secondo il Pci, l’assenza del finanziamento pubblico ai partiti avrebbe contribuito a creare una generazione di politici ladri. Da ciò che è accaduto nei decenni successivi, si può affermare senza tema di smentita che i comunisti non mostrarono lungimiranza sull’argomento. Poco male, dato che il vero schiaffo alla democrazia fu dato nel 1993, laddove la partitocrazia sovvertì in Parlamento l’esito schiacciante di un referendum che abolì il finanziamento pubblico. Il capolavoro delle truffe partitocratiche a danno dei cittadini, si consumò allorquando destra e sinistra votarono, assieme, una leggina che invece di andare nel senso indicato dai cittadini, quintuplicò l’importo da destinare ai partiti.
Dunque i cittadini italiani votarono per l’abolizione del finanziamento, per ritrovarsi con il “rimborso elettorale”, ovvero un finanziamento basato su autocertificazioni – spesso false – pari a cinque volte l’importo previsto fino al 1993. Grazie a tale stortura democratica, unita alla lottizzazione dell’informazione radiotelevisiva, l’egemonia culturale e di consensi nel paese, non è mai venuta meno per tale risma di truffatori legalizzati. Dal 1994 ad oggi, a fronte di 700 milioni dichiarati, i partiti hanno ottenuto rimborsi pari a oltre 2,5 miliardi di Euro. Non è un caso che, all’indomani di tale machiavellico rimedio contro la volontà popolare, i partiti di massa abbiano smesso di effettuare dei veri
tesseramenti fondati sull’identità politica degli iscritti.
Tessere regalate o dal costo simbolico hanno come unico effetto la fagocitazione di chi sottoscrive, che quasi in un patto di soggezione di hobbesiana memoria, consegna la sua vita politica al “Leviatano” di destra, di centro o di sinistra. I radicali da sempre si vantano di essere il partito più costoso in termini economici a cui aderire. Versando 200 euro annui e avendo diritto a parlare ogni anno al Congresso – altra pratica che la partitocrazia ha trasformato in sceneggiate senza substrato politico – il singolo radicale si sente parte di un’idea che cammina anche sulle sue gambe potendo inoltre ambire alla pari degli altri iscritti, a ricoprire cariche interne al partito. Insomma il finanziamento produce partiti che diventano comitati d’affari, mentre la selezione della classe dirigente avviene sulla base di poche frasi demagogiche sparate in internet da gente che, specie a sinistra, diviene simbolo di populismo buonista da agitare per coprire gli affari. Così, tra una Madìa e una Serrachiani dalla faccia pulita e dai contenuti da ricercare col lumicino, si sono ingrassati i “Lusi” che in tutti i partiti del regime hanno proliferato. Non è casuale che a partorire la leggina che condonava altri 100 milioni per affissioni abusive – altro cancro della partitocrazia – nel 2010, fu proprio l’ex tesoriere margheritino. Nel Pd è già partito – o almeno dovrebbe partire – un esame di coscienza, testimoniato dall’esternazione di Arturo Parisi che parla di dubbi circa la gestione dei fondi della Margherita. L’ex ministro della Difesa, ha dichiarato il suo stupore nel sapere che i soldi sono finiti in attici e beni di lusso destinati a uso privato. Qualcuno tenterà di scaricare su Lusi tutte le colpe di un sistema corrotto e ormai prossimo al collasso. Ipotizzare che Lusi non abbia passato soldi a nessun altro collega e che da solo fosse in grado di apportare ammanchi per milioni di euro, appare esercizio mentale tutt’altro che fondato. Far passare Lusi come “mela marcia” in un giardino dell’Eden, appare una presa in giro almeno per chi, come i radicali, da 35 anni propongono l’unica soluzione in grado di restituire autorevolezza ai partiti, ovvero l’autofinanziamento e il rapporto con gli iscritti. Meno affari, più politica.
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