da “Notizie Radicali”, 9-01-2012
Nel 1963, per le “Edizioni Avanti!” il poeta Ignazio Buttitta pubblicava “Lu trenu di Lu Suli” (“Il treno del sole”, storie, canti di protesta, canzoni in dialetto siciliano. Il volume era impreziosito da una “Introduzione polemica di Leonardo Sciascia”, “La vera storia di Salvatore Giuliano”.
Non ripeterò qui quel che del “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi ho scritto sul “Contemporaneo” e poi in una breve, sommaria storia del rapporto tra il cinema e la realtà siciliana; e non precisamente del film (che a mio parere è il migliore, assolutamente, tra i tanti che in questi ultimi anni della Sicilia hanno declinato fatti, aspetti e problemi), ma delle reazioni di un certo pubblico – di contadini, di zolfatari siciliani: del pubblico cioè tra cui vive la leggenda del bandito cavalleresco, nobile, pietoso – alla proiezione del film: quasi che Rosi avesse voluto, a sua volta, consentire al mito popolare; ponendo nella invisibilità una specie di dato mistico, agiografico, e non invece un dato di giudizio, di condanna – umana, civile, storica – sulla classe dirigente da cui il bandito, per scopi di conservazione padronale ed elettoralistici, era mosso. E ben diversa reazione avrebbe suscitato il film in quel determinato tipo di spettatore, se Giuliano fosse stato visibile: piccolo, triste personaggio; senza leggendam senza mito.
Ignazio Buttitta, in questa “Vera storia di Giuliano” ha invece puntato sul personaggio; ma condizionata com’è, la sua poesia, dal sentire popolare, poesia propriamente popolareggiante, voce che ha come elemento naturale la piazza dei paesi siciliani, anche il suo Giuliano non è del tutto sottratto al mito. Si capisce che Buttitta non è Ciccio Busacca o Orazio Strano, le cui storie debbono obbedire a una precisa richiesta, non contrastare al sentimento della piazza, muoversi senza scarti nella leggenda; né del resto potrebbero. Buttitta ha coscienza civile netta, netto giudizio morale e politico: e dice vera la storia di Giuliano in funzione della coscienza, del giudizio; là dove la verità del cantastorie è invece quella del sentimento cui risponde, dell’antica affermazione e rivolta dell’individuo contro la società, contro lo Stato; del diseredato contro il ricco; del docile che finalmente scatta contro il prepotente; della vendetta sociale, insomma, che di volta in volta prende figura in Antonino Di Blasi detto Testalonga, nei fratelli La Mattina, in Francesco Paolo Varsalono, in Giuliano. E c’è da credere che per autocensura, a non sconfinare nell’apologia diretta del crimine, le storie di Giuliano che corrono per le piazze abbiano subito una specie di alleggerimento, sortendo a volte ad effetti di involontaria, singolare raffinatezza: come per esempio in quel sesto episodio della storia di Giuliano cantata da Busacca, quello del bandito e della duchessa di Pratomeno; dove la duchessa viene derubata di tutti i gioielli, e persino dell’anello che porta al dito, con una cerimonia da parte di Giuliano in cui è una specie di ironico contrappasso, di parodia, dei modi che son proprii al mondo cui la duchessa appartiene; e vien da pensare alla pagina finale di “Una manciata di polvere” di Evelyn Waugh, con quel capotribù che parla come un gentiluomo inglese a quel gentiluomo inglese che si tiene prigioniero.
Il sentimento che Buttitta ha verso Giuliano è di pietà, non di ammirazione; pietà, a dirla semplicemente, per il “figlio di mamma”. E già nella “Storia di Turiddu Carnevali” egli aveva creato una straziante figura di madre; la madre del giusto. Qui a non invadere di pietà la storia, appunto perché non è la storia di un giusto, ha saputo tenere in secondo piano la madre di Giuliano: e gli sarà costato un certo sforzo non abbandonarsi nel nono episodio, quello della morte del bandito, all’onda della lamentazione, del llanto; a tenere e contenere dentro sei versi, peraltro di grande forza, l’arrivo della madre a Castelvetrano:
E vennu li parenti e la famigghia,
prima la matri cui i razza jsati
e a cu a vidi pari c’assumigghia
a la Madonna di la piatati:
La matri d’un briganti matri resta:
lu lampi luci, e porta la timpesta!
Ma sembra appartenere al lamento della madre questa straordinaria immagine che precede la sua apparizione; in cui la natura, attonita, si sveglia a quella morte:
L’arba a Castelvetranu s’arruspigghia
Cu Giulianu tra l’occhi e li gigghia,
Giuliano come un grumo di sonno, come un grumo di morte, tra le ciglia dell’alba. E così in tante altre immagini in cui il poeta assume gli eventi dolorosi, i fatti tragici, le violenze, i morti ammazzati in un sentimento che si può dire materno: poiché madre è in definitiva la Sicilia, cui assolutamente e profondamente quel peso di morte, quella dilacerazione, quelle pene appartengono. La Sicilia-madre è anzi la chiave della poesia di Buttitta (non soltanto in questa storia): entità a volte astratta e spericolata sull’orlo del sentimentalismo, più spesso concreta nelle dolorose antinomie, nelle sanguinose contraddizioni; e nella sempre più chiara coscienza delle proprie antinomie, delle proprie contraddizioni; della propria storia, insomma, in cui anche la storia di Giuliano si iscrive con quella verità che il poeta ha voluto e saputo darle. “La matri d’un briganti matri resta”: e così la Sicilia.
Nel saggio su “Meli e la poesia popolare”, il Cocchiera arriva all’esatta conclusione che il poeta, “pur avvalendosi dei materiali che il popolo gli offre, generalmente, non li inserisce nella sua opera come frammenti più o meno raffazzonati; ma li rivive, li rielabora interiormente, li informa nella sua ispirazione e perciò li ricrea. Si tratta, in questi casi, di una contaminazione letterario-popolare, la quale accusa la pura natività e la schietta originarietà della forma popolare. Senonché laddove il linguaggio del popolo è maturo per l’arte (e quindi per una determinata forma di elaborazione) nel senso che in esso c’è quel limite espressivo che è lo stesso limite dell’anima popolare, nel linguaggio del Meli tanto la struttura metrica quanto quella ritmica hanno, invece, una elaborazione che è propria in ogni matura fantasia letteraria”. Il rapporto tra questa “Storia” di Buttitta e le forme propriamente popolari del genere si può anche porre in questi termini. La strada di Buttitta è lunga, la sua esperienza complessa: ed oggi la sua è una matura fantasia letteraria. Solo che la contaminazione letterario-popolare si svolge su un terreno ben diverso da quello del Meli: non è una contaminazione di forme se non in funzione di una contaminazione, per così dire, civile. Attraverso forme popolari o popolareggianti, Buttitta insinua nel sentimento popolare la propria coscienza civile, la propria ideologia. Operazione piuttosto complicata ed ardua, a considerarla in termini della volontà; ma Buttitta la svolge con assoluta naturalezza, con precisa necessità: esperienza che appartiene alla sua storia – di uomo, di poeta – e non scelta di una forma letteraria. Nel 1952, nella introduzione all’antologia della poesia dialettale del novecento, Pasolini poteva intruppare Buttitta in “quel gruppo, in certo modo interessante, per quel suo misticismo francescano (tra D’Annunzio e Godoy!) di siciliani fattisi per residenza lombardi e quindi esposti da una parte alla nostalgia dall’altra a ambizioni nazionali“; e poteva escluderlo dall’antologia, pur notando che le ultime poesie, ancora inedite in volume (e formarono poi “Lu Pani si chiama pani”), fossero “assai meglio”. Ed altro che, se erano assai meglio! Erano la nuova poesia, di nuovo e diverso poeta; una poesia di rivolta e di speranza, un grido inconsueto nella poesia dialettale siciliana, solo paragonabile a certi canti di affocata rivolta del popolo: e pensiamo precisamente a quel canto della messe pubblicato da Serafino Amabile Guastella parecchi anni or sono, e rimasto sconosciuto al di fuori della cerchia degli specialisti. In forza degli accadimenti civili – la guerra, il dopoguerra, il nuovo insorgere del problema meridionale – il poeta prendeva coscienza della storia siciliana e nazionale, scopriva la realtà della sua terra al di là degli schermi georgici, arcadici, pseudofrancescani (e, naturalmente, dannunziani). La sua poesia, insomma, con “Lu Pani si chiama pani” veniva ad inscriversi, e tra le voci più autentiche, nel nuovo realismo italiano. Poi venne, genuina storia popolare,intensa poesia, la “Morti di Turiddu Carnevali”: uno dei più felici incontri tra poesia letteraria e poesia popolare che si possano finora registrare (“Baronessa di Carini” a parte: per ragioni di cui ci renderemo conto con la pubblicazione del lavoro cui per ora attende Aurelio Rigoli); e ora “La Vera storia di Turiddu Giuliano”. Vera, drammatica storia; ardita nemesi del sentimento e delle forme di espressione del popolo rovesciata in un giudizio non popolare. Un giudizio, cioè, non ancora popolare: ma che può, in forza della poesia di Buttitta, diventare popolare.
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