Di Valentina Ascione, dal quotidiano “Gli Altri”, 24-06-2011
Era davvero ben scritta la lettera nella quale poche settimane fa un internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia – uno dei tanti condannati ai cosiddetti ergastoli bianchi – descriveva la propria quotidianità all’interno dell’istituto. Una quotidianità scandita da privazioni grandi e piccole. Alcune inspiegabili, altre irritanti, passate in rassegna con la cura e la precisione di chi ha fatto di necessità virtù, familiarizzando in cattività con la penna e perfino con una terminologia e uno stile burocratico propri di un legale. Privazioni non solo delle attività trattamentali, formative e rieducative, previste dalla Costituzione italiana, ma anche di quei diversivi minimi, e tutto sommato innocui, che renderebbero meno aride e lunghe le giornate di chi, come lui, vive ostaggio della propria “pericolosità sociale”. Etichetta, questa, che ci vuol poco a guadagnarsi, ma che spesso non basta una vita a scrollarsi di dosso.
Eppure l’autore della lettera non chiedeva, come fanno tante volte i detenuti, che qualcuno di “influente” si facesse carico della sua situazione giudiziaria, magari per ottenere un trasferimento o qualche beneficio. La richiesta oggetto della lettera, tanto insolita quanto candida, era quella di poter finalmente ricevere un regolamento interno di un normale carcere o, se fosse possibile, di un ospedale psichiatrico giudiziario. O qualcosa di simile che ci possa aiutare a capire quali siano effettivamente i nostri diritti, o almeno le minime cose che ci sono concesse per legge. Una rivendicazione dalla banalità disarmante, ma solo in apparenza. L’accesso al regolamento interno è infatti uno dei primi diritti fondamentali del detenuto ad essere violato una volta varcata la soglia di una cella, soprattutto perché sono in molti, specialmente stranieri, a ignorarne perfino l’esistenza. “Conoscere per deliberare” recita il principio di einaudiana memoria. L’informazione è forse il più prezioso strumento di tutela dei propri diritti, dentro il carcere e fuori, risulta infatti difficile difendere qualcosa che non si conosce. Un’informazione corretta e completa può fare la differenza nella vita ciascuno fino alle estreme conseguenze.
Ne sa qualcosa il giovane Stefano Gugliotta, il giovane che un anno fa venne pestato a sangue dalla polizia che lo aveva scambiato per un tifoso (come se fosse legittimo pestare un tifoso) solo perché si trovava casualmente nei pressi dello stadio Olimpico al termine della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter. Volevano fargli firmare il rifiuto delle cure ma il ragazzo – come ha raccontato recentemente Valentina Calderone, autrice con Luigi Manconi del libro “Quando hanno aperto la cella” – ha avuto la prontezza di opporsi perché si è improvvisamente ricordato di quanto accaduto a Stefano Cucchi. E ne sanno qualcosa anche i familiari di quest’ultimo, a quali solo dopo tre giorni di inutile attesa fu spiegato che per vedere il figlio o parlare con i medici avrebbero dovuto chiedere il permesso del giudice. Un permesso che, come noto, arriverà troppo tardi. Se dunque la legge non ammette ignoranza è anche vero che si fa ben poco per promuovere conoscenza. Soprattutto laddove la conoscenza fa rima con i diritti. E neanche questo dovrebbe essere ammesso in un vero Stato di diritto.
Condividi [3]Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=3854 [4]