Da Agenzia Radicale
Le molte mistificazioni intorno ai referendum sull’acqua, l’utilizzo di questo elemento naturale e della sua forza evocativa hanno finora distolto l’attenzione sul tema reale del primo quesito referendario, che è disciplina relativa all’affidamento delle gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, di cui il servizio idrico è solo uno dei settori coinvolti, introdotta dall’art. 23 bis del Decreto Ronchi. Gli enti locali, per realizzare la produzione di beni e servizi necessari a conseguire “fini sociali” e “promuovere lo sviluppo economico delle comunità locali”, possono ricorrere a varie forme di gestione, una di queste è l’azienda speciale detta anche società in house, che presenta elementi di analogia con la vecchia municipalizzata pur differenziandosene avendo una propria personalità giuridica.
L’art. 23 bis del Decreto Ronchi, sottoposto al vaglio referendario, ha sferrato un duro colpo a questa modalità di affidamento dei servizi pubblici locali, stabilendo che l’in house divenga un’eccezione ammissibile solo in casi particolari.
Ma cosa sono le società in house? Si tratta di società a capitale interamente di proprietà dell’ente locale, per cui realizzano la parte più rilevante della propria attività. L’ente locale nomina e revoca degli amministratori ed esercita un controllo sugli atti di indirizzo degli organi societari che la legge definisce “controllo analogo” ovvero lo stesso che Comuni e Province hanno sui propri organi.
Per queste aziende la dottrina giuridica parla di “mancanza di intersoggettività” tra concessionario del servizio ed ente concedente, requisito che giustifica il mancato ricorso a procedure di evidenza pubblica per la scelta del soggetto gestore del servizio.
L’utilizzo di un espressione inglese non deve trarre in inganno, questo modello di gestione del mondo anglosassone ha poco o nulla, viceversa si è spesso rivelato come uno strumento assai “casereccio” di produzione del consenso a discapito dei criteri di economicità della gestione.
L’in house è la sublimazione italiana del conflitto di interessi: il medesimo soggetto (l’ente locale) esercita contemporaneamente due funzioni necessariamente confliggenti, quella di gestore e quella di controllore della gestione.
Per una delle tante stranezze prodotte dalla riforma del titolo V della Costituzione, queste aziende non sono sottoposte al patto di stabilità nazionale che vincola gli enti locali, così come recentissimamente confermato da una sentenza della Corte Costituzionale. Questa peculiarità rappresenta l’avallo giuridico che rende questa modalità di affidamento dei servizi pubblici locali uno degli ultimi bacini clientelari, cui bipartisan la politica ad oggi ha copiosamente attinto.
Il Decreto Ronchi ha tradotto (seppur rafforzato e con immancabili italici ammiccamenti oligopolisti) lo scetticismo comunitario nei confronti degli affidamenti in house, considerati deroghe, sottrazioni ad un mercato in cui esistono regole per la scelta del concessionario del servizio pubblico locale o del contraente.
L’art. 23 bis del Decreto Ronchi è anche il portato di un’evoluzione del concetto di servizio pubblico, di una sua “oggettivazione” ovvero dalla considerazione che il servizio è pubblico in quanto assolve ad una funzione legata ad un interesse generale in luogo di una concezione “soggettiva” data dal profilo sostanzialmente pubblico del soggetto gestore.
Si tratta di una vera e propria metamorfosi del modo di intendere il servizio pubblico, attraverso incipit prevalentemente derivanti dall’influsso del diritto comunitario, il cui orizzonte è l’irrilevanza della natura pubblica o privata della proprietà del soggetto gestore, realizzata attraverso un sistema di regole efficienti.
E’ molto probabile che dietro i molti equivoci legati ai referendum sull’acqua vi sia l’effetto potenzialmente rivoluzionario per il nostro paese di queste “aspirazioni” comunitarie.
Andrea Granata(Segretario Associazione Radicali Marche)