Papa Francesco a Lesbo: un forte monito alle istituzioni europee e al mondo
Nell’isola greca di Lesbo, diventata la Lampedusa greca, abbiamo assistito ad un evento davvero eccezionale: Papa Francesco, il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e l’arcivescovo di Atene Ieronymos, uniti tra i rifugiati per conviderne le sofferenze; dunque, leader cattolici e ortodossi riuniti non per discutere di questioni ideologiche, ma per un impegno umanitario verso coloro che soffrono.
Il loro è stato senza dubbio un grande segnale lanciato all’Unione europea e al mondo. Essi hanno esortano «tutti i Paesi a estendere l’asilo temporaneo e a concedere lo status di rifugiato a quanti ne sono idonei, finché perdurerà la situazione di precarietà».
Francesco – così era invocato dai «reclusi» nell’hotspot di Moria – ha compiuto un gesto che rimarrà scolpito nella coscienza dei governi di quei paesi che si illudono che alzando muri e barriere di filo spinato si possa affrontare adeguatamente tale tragedia umanitaria: è tornato a Roma con tre famiglie siriane, musulmane, e i loro sei figli; li ha portati con sé sul suo aereo diretto in Italia, quando ha lasciato l'isola greca.
Dopo l’entrata in vigore, il 20 marzo scorso, dell’accordo sui rimpatri dei rifugiati tra Turchia e UE, a Lesbo sono stati sgombrati i campi autogestiti dai numerosi volontari accorsi da tutto il mondo e il centro di accoglienza di Moria sembra adesso un carcere con garitte e fili spinati, vietato alla stampa.
Proprio durante la visita del Papa, nelle adiacenze del porto, diversi volontari hanno manifestato con cartelli e striscioni, gridando «no all’accordo Turchia-UE» e «no alla prigione di Moria».
Sull’isola abbiamo incontrato Nabil, rifugiatosi in Turchia da Lahore, una cittadina del Pakistan, e giunto a Lesbo tre settimane fa su un gommone con a bordo 65 rifugiati, suoi connazionali, ci ha raccontato che le condizioni a Moria si sono gravemente deteriorate dopo il 20 marzo, a causa del sovraffollamento.
«Solo oggi – ci ha detto – un gruppo di pachistani ha interrotto uno sciopero della fame che durava da una settimana per chiedere che fossero distribuite a tutti adeguate razioni di cibo».
«Due miei concittadini si sono suicidati il 4 aprile, perché avevano appreso di essere tra coloro che sarebbero dovuti tornare in Turchia, per poi essere rimpatriati perché considerati ‘’migranti economici’’», ci ha raccontato con le lacrime agli occhi.
E quando gli abbiamo detto che il Papa sarebbe venuto ad abbracciarli, il suo volto si è illuminato.
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